Rispetto ai moti del 1820-21 e del 1830-31, dove agirono prevalentemente élite civili e militari, uno spettro si aggirò nel 1848 anche in Italia, lo spettro del popolo. A Milano, sulle barricate durante le Cinque Giornate, come nelle campagne del nostro Mezzogiorno, operai, artigiani, contadini senza terra, braccianti affamati, mezzadri e coloni con la schiena spezzata da patti economici di tipo semifeudale, contribuirono decisamente all’indietreggiamento delle truppe di Radetzky fino al Quadrilatero e di quelle del Borbone nei loro quartieri di partenza. Cosa spinse queste masse alla lotta? Il desiderio di migliorare la propria condizione di vita, rispose Carlo Pisacane. E perché poco dopo abbandonarono le armi, tornando a imbracciare i loro arnesi da lavoro o alla loro miseria, salvo vederle opporre nel 1849 un’ultima, strenua difesa a Roma, Venezia, Genova, Brescia e Livorno, di fronte al ritorno dello straniero e dei monarchi domestici? Perché nel fronte democratico alla loro guida, si iniziò a discutere di nuovi sistemi sociali, rispose Giuseppe Mazzini.
Nella sua analisi dei fatti trascorsi nel biennio rivoluzionario, seppur debitore per talune soluzioni nei loro confronti, il neonato socialismo risorgimentale italiano, non scimmiottò però le idee di Proudhon, Fourier, Saint-Simon, Cabet ecc., come pensava il genovese. Lo stesso Pisacane, ma anche Giuseppe Ferrari e Giuseppe Montanelli, solo per citarne alcuni, grazie a un’attenta e precisa disanima degli avvenimenti successi, nelle opere che diedero alle stampe fra il 1851 e il 1852, misero viceversa in luce il mancato accoglimento delle esigenze materiali da parte proprio di Mazzini di questa enorme fascia del popolo italiano che si affacciò alla lotta.
Con le loro memorie (Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49 di Pisacane e Introduzione ad alcuni appunti storici sulla rivoluzione d’Italia di Montanelli, per esempio) questi padri del nostro socialismo reclamarono a gran voce una rivoluzione nazionale che fosse anche sociale; che incidesse concretamente sulla vita futura della stragrande maggioranza degli italiani, quella povera; che non fosse basata solo sulle idee di indipendenza e unità, come si ostinava a predicare Mazzini; che non fosse formale, per dirla con Ferrari, ma sostanziale; che imprendesse in ultimo soluzioni che rendessero più civili i rapporti economici a cui l’incipiente industria moderna costringeva gli operai e gli artigiani delle città o che facesse accedere alla terra i contadini delle campagne della nostra penisola.
Scrivo queste poche righe perché, oltre che invitare alla lettura di quelle opere, vorrei che chi operi in politica o nei sindacati, tenga sempre presente l’insegnamento, per me ancora valido, che da tutte esse promana. Ultimamente non mi è sembrato.