“Sorry, we missed you”: Ken Loach emoziona ancora - di Maurizio Prili

Si esce dal cinema con gli occhi sbarrati e un dolore alla bocca dello stomaco…

[Maurizio Prili, operaio è autore di una raccolta di racconti “Quarant’anni dopo - Le storie: racconti brevi”, pubblicato da Booksprint]

Iniziamo da qui. La sera precedente ero riuscito ad andare a vedere il film che mi ero ripromesso di andare a vedere: “Sorry, we missed you” di Ken Loach, che veniva annunciato come il seguito del pluripremiato “Io, Daniel Blake” almeno per il modo di raccontare il mondo del lavoro nell’età del neoliberismo. Il giorno dopo ho poi assistito in TV durante il programma “L’aria che tira” a un dibattito sull’ipotesi di reintroduzione dell’art. 18 nello Statuto dei Lavoratori. Nel programma era presente, tra gli altri, l’economista ed ex ministro del lavoro nel governo Monti, Elsa Fornero, la quale si dichiarava nettamente contraria e motivava la cosa, pur riconoscendo ai lavoratori nell’attuale condizione lavorativa il ruolo di parte estremamente più debole nel rapporto con l’impresa, con un veloce “la reintroduzione dell’art. 18 e degli altri diritti smarriti nelle politiche degli ultimi vent’anni non aiuterebbe la crescita, anzi la ostacolerebbe”. Scrivo con negli occhi entrambe le visioni.

La storia del film si svolge in Inghilterra ma potrebbe essere ambientata anche in Italia, in Europa e in ogni altro paese occidentale capitalista. Ruota intorno alla figura di un uomo che, dopo aver perso il lavoro negli anni della crisi bancaria del 2009, si rimette in gioco dopo lunga disoccupazione in uno dei pochi modi che il nuovo mercato della mano d’opera, quello del lavoro agile e del lavoro accessorio, gli propone: acquistare un furgone indebitandosi fino al collo e vendendo l’auto della moglie e iniziare a lavorare in proprio (quello che da noi si intende per lavorare a partita IVA) come corriere per una azienda del settore dell’e-commerce, stritolato tra tempi di consegna da rispettare, orari di 14 ore al giorno, strumenti tecnologici che lo seguono passo passo, multe che gli rodono il già magro guadagno e una serie di dolorosi contrattempi forse troppo esasperati ma che rendono bene l’idea di ciò che resta della vita di una famiglia di umili lavoratori. Perché anche la moglie è precaria, badante a domicilio e pagata a prestazione, con solo rapporti telefonici con l’agenzia per conto della quale opera e, per tutta la lunga giornata tra autobus e solitudini umane, con tutto il resto della famiglia di cui continua comunque ad occuparsi faticosamente. Perché anche i due figli sono a rischio precarietà, marginalità, asocialità, nonostante ogni componente cerchi di opporsi con il massimo possibile di umanità, intelligenza e sensibilità.

Il film non è forse all’altezza di “Io, Daniel Blake”: non ne ha la scorrevolezza, la poesia, la delicatezza, ma si esce dal cinema con gli occhi sbarrati e un dolore alla bocca dello stomaco, e con l’impressione che stavolta alla fine tutto si distruggerà, comprese le vite di quelle quattro persone e che manchi quello che c’era nell’altro film: la speranza e la fiducia nel prossimo, nella sua solidarietà come lavoratore e nella sua etica come consumatore. La realtà in questo caso è stata rappresentata fedelmente grazie alla descrizione dettagliata dei veri corrieri, presenti e passati, i quali però, come dice una didascalia in fondo ai titoli di coda, non hanno voluto essere nominati. Per paura di perdere anche quel maledetto posto di lavoro. E questo credo che possa essere il riassunto conclusivo, del film e della vita.


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