Le cronache degli ultimi giorni hanno fatto conoscere il caso Uber, dopo il commissariamento deciso dal Tribunale di Milano di Uber Italy che usava per le consegne immigrati con o senza permesso di soggiorno, assoldati tramite società di intermediazione di manodopera, e sfruttati da caporali con la compravendita degli account di consegna. Ciclofattorini pagati tre euro l’ora, nel silenzio di una multinazionale che solo dopo l’iniziativa della magistratura si è fatta sentire, con le abituali lacrime di coccodrillo.
Ma basta cercare sulle cronache locali per trovare notizie di segno analogo. Come il caporalato in edilizia in due aziende operanti nella Toscana centrale, una intestata a un italiano e l’altra a due egiziani, che reclutavano manodopera straniera, sia con permesso di soggiorno che senza, pagando ben poco e al nero una parte dei manovali e muratori, mentre gli altri venivano assunti con contratti per un orario inferiore al lavoro effettivamente svolto.
Di esempi simili di sfruttamento se ne potrebbero contare a decine e decine ogni settimana, da un capo all’altro della penisola, se solo ci fosse la volontà politica di accendere i riflettori su pratiche che, come ha rilevato la magistratura in relazione ad alcune ditte calzaturiere - di proprietà cinese – sempre in Toscana, portavano ad utilizzare migranti africani come operai “perché facilmente sfruttabili in quanto privi sia di alternative lavorative, sia delle risorse necessarie per denunciare un eventuale sfruttamento sul luogo di lavoro, oltre che meno consapevoli dei propri diritti sindacali rispetto a lavoratori provenienti da altre zone”. Un altro tassello di un patologico puzzle su cui la “sanatoria di mercato” entrata ora in vigore non è voluta intervenire.