“Sono comunista e sto con la rivoluzione, perché quelli nati come me prima dell’arrivo di Fidel sanno bene cosa significa venire al mondo dalla parte sbagliata. Quella della miseria. Io poi sono fra coloro che grazie alla rivoluzione hanno girato un po’ e ho visto tanta gente, ma tanta davvero, vivere molto peggio di come stiamo noi. Ma, dite: a voi tutto questo non risulta?”.
Così “cantilenando” sul filo di un sorriso Alberto Juantorena, qualche estate fa, raccontava di sé ad un crocchio di giornalisti canadesi accorsi, a Vancouver, per un meeting di atletica, impreziosito dalla presenza di questo signore che “solo” qualche decina d’anni prima correndo aveva meravigliato il mondo. E dire che quando il suo fisico di adolescente si acconciava a prendere forma e la forza straripava in lui da ogni movimento, gli insegnanti di ginnastica lo avevano spinto verso il basket.
Aveva vent’anni quando un “signore”, casualmente, lo vide giocare. Quell’uomo dal nome impronunciabile, Zygmund Zabierzowski, responsabile della federazione cubana di atletica, nel guardarlo capì subito di essere davanti ad un predestinato. Si trattava di convincere il ragazzo a lasciare uno sport nel quale si divertiva come un matto per “iniziarlo” a una disciplina dove tra le varie incognite c’era quella dell’età. Del resto, come si fa a cominciare a correre per vincere a vent’anni e senza averlo mai fatto prima? Ma Zygmund, davanti alle vivaci resistenze degli allenatori e alle incertezze del giovanotto, non si perse d’animo: “(…) insistei molto è vero, ma d’altra parte non mi sarei perdonato d’aver regalato al basket il potenziale miglior mezzofondista mai visto. Bastava guardarlo correre per capire come quel ‘galoppo’ fosse sprecato dentro i confini di un ‘campetto’”.
Smesso “lo spreco”, Alberto Juantorena cominciò a correre non più per fare canestro ma per mettersi gli avversari dietro le spalle.
La stazza fisica era imponente come quella di uno sprinter, ma per essere irresistibile doveva distendere la falcata ben oltre i cento metri o i duecento. C’era qualcosa di fenomenale in lui quando, trovato il ritmo, sembrava volare e i metri scorrevano via senza sforzo apparente.
Il polacco aveva visto giusto. Il “mustang” di Santiago de Cuba, un solo anno dopo aver mollato palle e canestri, si qualificò per le Olimpiadi tedesche del 1972. E a Monaco, nei 400, andò così forte da arrivare alle semifinali. Allora aveva 22 anni e, di questi, giova ripeterlo, solo uno passato a correre. Gli bastò affinare un po’ la tecnica, poi la natura fece tutto il resto e nel 1973, dopo grappoli di vittorie minori, alle Universiadi, vinse l’oro nei 400. Nel frattempo a Cuba avevano preso a seguirlo con passione e proprio i suoi tifosi nel riempirsi gli occhi di quella corsa fluida e potente coniarono un meraviglioso soprannome: “El Caballo”. Intanto il “Cavallo”, traguardo dopo traguardo, con una medaglia d’argento “rimediata” ai giochi Panamericani del ‘75, si avvicinava alle Olimpiadi.
Nel frattempo, il “ragazzo galoppante” non perdeva di vista il mondo. E il mondo, tutto il mondo, in quegli anni sembrava destinato a diventare un posto migliore. Il primo maggio del ‘75 i combattenti del Fronte nazionale di liberazione vietnamita e i regolari del Vietnam democratico erano a Saigon terminando e vincendo una lunga guerra contro gli invasori statunitensi. In Angola e in Mozambico la fine del colonialismo portoghese coincideva con la nascita di regimi popolari e in Angola i volontari cubani si coprivano di gloria correndo in soccorso del MPLA di Agostino Neto, combattendo contro la soldataglia mercenaria raccoltasi intorno ai lacchè del Sudafrica. In Europa crollavano gli ultimi regimi dittatoriali: tirava le cuoia Francisco Franco e la Spagna coglieva l’occasione per voltare pagina. In Portogallo i garofani degli ufficiali democratici e progressisti spazzavano via quel che rimaneva del vecchio regime salazarista e Vasco Concalves, “un comunista senza tessera”, diventava primo ministro. Poco tempo prima, in Grecia, il sanguinario regime dei colonnelli golpisti era crollato sotto il peso dei propri crimini e travolto dalle contraddizioni degli alleati americani. In Italia, i comunisti, dopo essere stati determinanti nella vittoria referendaria sul divorzio, si apprestavano ad inaugurare un “biennio rosso” di straordinarie vittorie elettorali.
Insomma, il mondo correva per il verso giusto e Juantorena pure. Correva i 400 ma sempre più spesso pensava di poter sfidare se stesso anche sugli 800.
“Ragazzo mio gli 800 sono il doppio dei 400 e tu non hai nessuna preparazione per i due giri di pista, lascia perdere...”, così il trainer polacco cercava di fargli capire quanto fosse poco saggio pensare a cose mai riuscite a nessuno. Per di più con le Olimpiadi di Montreal alle porte. Ma “El Caballo”, come ogni Cavallo degno di tal nome, era anche un po’ pazzo e di testa dura e ascoltando solo se stesso si “iscrisse” agli 800.
Sulla pista olimpica non solo raggiunse la finale, in quella che non doveva essere la sua specialità, ma la vinse battendo il record mondiale con il tempo di 1,43 e 50. E tre giorni dopo vinse, con uguale stupefacente naturalezza, la seconda medaglia d’oro nei “suoi” 400. Davanti ai giornalisti che con genuino stupore rendevano omaggio alle sue trionfali cavalcate, con il solito disarmante sorriso rivelò il “segreto” di quelle vittorie: “E’ stato tutto abbastanza facile e una volta trovato il ritmo ho corso i 400 come se fossero i 100 ripetuti 4 volte…”. E gli 800? “Beh, anche lì non ci sono stati problemi particolari, si è trattato solo di ripetere 8 volte i 100 metri…”.
Alberto Juantorena, dopo Montreal, mise a frutto l’enorme popolarità conseguita con gli ori olimpici dando una mano al suo Paese, pensando più alla “causa” che a vincere. E se da Montreal in poi quei momenti di magico splendore non si ripeteranno, nemmeno verranno più scordati. Mai.
Da allora, da quando “El Caballo” correva e insieme a lui sembrava correre il vento della Rivoluzione, sono passati tanti anni. Ormai Juantorena non corre più e il vento, quel vento sembra il sospiro stanco di una speranza affievolita. Però quando, qualche tempo fa, su un canale satellitare, abbiamo visto un magnifico signore, dalla pelle chiara, dai capelli (ormai pochi) un po’ crespi e dalle spalle larghe quanto il suo sorriso, ricevere, come presidente della federazione cubana di atletica, dirigenti ed atleti del Venezuela, chissà com’è, ci parso di sentire una “brezza amica”.