Buonarroti, Bianco, Pisacane e la linea politica della Giovine Italia
[La prima e seconda parte di questo articolo sono stati pubblicati, con i titoli “Alle origini del socialismo italiano” e “I democratici e la rivoluzione italiana: dalla guerra per bande al ‘fare massa’”, sui numeri 1 e 6 di ‘Reds’ 2020)
Sbarazzatosi nel febbraio 1833 del binomio Buonarroti-Bianco, successivamente al loro tentativo di radicalizzare dall’interno la linea politica della Giovine Italia, attraverso la pubblicazione di un Manuale pratico del rivoluzionario Italiano che non fosse solo “materiale”, “pratico”, ma anche “morale”, “teorico”, con un marcato accento cioè, oltre che sulle idee di unità, indipendenza e libertà per il nostro paese, anche su quella di uguaglianza, Mazzini veleggiò incontrastato alla guida del fronte democratico italiano fin dopo il ‘48, allorquando i nostri primi socialisti ne criticarono il programma ingessatamente formale, anche sul piano militare, che è quello che qui più ci interessa.
Ma, precisato che, dopo averla assimilata da Bianco, dichiarata come teoria e prassi di lotta ufficiale della sua Società e diffusa in ogni sua Sezione, il genovese intendeva la guerra per bande non come il cerino dell’insurrezione, da lui concepita come lo stadio precedente alla rivoluzione vera e propria, fase, quest’ultima, della rivoluzione nazionale nel corso della quale, preso il testimone del potere dall’autorità provvisoria di governo militare, la Costituente repubblicana avrebbe iniziato finalmente i suoi lavori, ma, piuttosto, come suo puntellamento, cogliamo l’occasione per difenderne l’operato posteriore alla fallita spedizione sulla Savoia del 1834, che pur aveva il medesimo schema. In altre parole, soltanto dopo aver liberato una parte del territorio patrio, come appunto tentò di fare in Savoia, e averne preso saldamente il governo, Mazzini auspicava la germinazione delle singole bande a sostegno della guerra nazionale. Diciamo questo perché, per lunghissimo tempo, Mazzini è stato dipinto come un uomo spietato, senza scrupoli, pronto a sacrificare, a piè sospinto, i suoi uomini per pura vanagloria rivoluzionaria. Non è così. Una più attenta analisi dei fatti e dei documenti conosciuti finora, dimostra come nel 1839 egli dissuase Nicola Fabrizi, capo della Legione Italica, costola paramilitare della Giovine Italia, assertore, lui sì, della guerra partigiana come scaturigine della prima fase insurrezionale della rivoluzione nazionale, da un suo progetto di sbarco in Calabria; nel 1840 distolse Augusto Cesare Marani da un suo piano volto a scatenare la guerriglia lungo tutta la penisola; come sconsigliò e disapprovò i tentativi rivoluzionari di Romagna del 1843 (a Savigno e a Imola), dietro ai quali c’era, invece, Fabrizi, e, infine, come non fu l’ispiratore nel 1844 della spedizione dei fratelli Bandiera. Eppure il messaggio che passò alla Storia, grazie alla propaganda monarchico-moderata, che aveva l’obiettivo di screditare lui e la guerra popolare, di cui egli era il massimo banditore, fu quello di un Mazzini trita-compagni, quando, invece, anche per l’annotazione che innanzi abbiamo fornito, non è vero. Il ribaltamento della funzione assegnata alla guerra per bande all’interno della sua concezione della diade insurrezione-rivoluzione avvenne solo in seguito al fallimento del moto milanese del 6 febbraio 1853, per i motivi che diremo più avanti.
Intanto il biennio rivoluzionario ’48-’49 fu un periodo d’oro per Mazzini. Con tutto quello che essi rappresentavano, uno dopo l’altro, egli vide cadere politicamente i suoi avversari: Carlo Alberto, Pio IX, Gioberti. Iniziatore del Risorgimento, predicatore indefesso, anche nei periodi più neri, dell’iniziativa popolare, il genovese ne usciva, invece, come il difensore della Repubblica romana, gloriosa pure nella sua caduta. Vedendo all’orizzonte una crisi rivoluzionaria simile, se non più profonda, a quella appena conclusa, il genovese si rimise subito al lavoro, per ribadire nel campo democratico la giustezza del suo schema di rivoluzione nazionale. Dopo Bianco, Mazzini dovette però fare i conti con un secondo Carlo: Pisacane.
Carlo Pisacane nacque a Napoli il 22 agosto 1818, da Gennaro, duca di San Giovanni, e da Nicoletta Basile de Luna. Dal 1832 frequentò la “Nunziatella”, il celebre collegio militare della città. Nella sua formazione intellettuale spicca la conoscenza di Giambattista Vico, attraverso la lettura di Vincenzo Cuoco, e degli illuministi napoletani, quali Mario Pagano e Gaetano Filangieri. Nel febbraio del 1847 interruppe la sua carriera nel Genio, per fuggire verso Livorno con il suo grande amore, Enrichetta Di Lorenzo, moglie di suo cugino, un ricco commerciante. Toccate Marsiglia, Londra, Parigi, entrato nella Legione Straniera, operativo in Algeria, scoppiato il ’48, il 14 aprile era a Milano al cospetto di Carlo Cattaneo, per mettersi a sua disposizione. Apprezzandone la preparazione tecnica, lo stesso gli chiese di stendere un progetto per organizzare un esercito lombardo. Nella relazione che il napoletano elaborò, si intravedono le prime critiche all’indisciplinata proliferazione delle formazioni di volontari, per sostenere la necessità di concentrare e compattare le forze disponibili. Dopo una ferita, il ritorno degli austriaci lo fece dirigere prima in Svizzera poi in Piemonte, per presentarsi a Mazzini l’8 marzo 1849 sotto un cielo repubblicano. Di seguito il ricordo che il genovese ebbe di quell’incontro: “Un giorno in Roma, nel 1849 […] saliva a vedermi un giovane ufficiale napoletano. Era Carlo Pisacane. Mi si presentò senza commendatizie: m’era ignoto di nome. […] Mi bastò un’ora di colloquio perché l’anime nostre s’affratellassero, e perch’io indovinassi in lui il tipo di ciò che dovrebb’essere il militare italiano, l’uomo nel quale la scienza, raccolta con lunghi studi ed amore non aveva addormentato, creando il pedante, la potenza di intuizione e il genio, sì raro a trovarsi, dell’insurrezione”.