La pandemia e il lungo periodo di chiusura e quarantena hanno mostrato ai tanti distratti quanto significativo sia il lavoro manuale nella filiera agroalimentare, nelle attività manifatturiere, nella logistica, nella distribuzione alimentare. Non a caso, ora a bocce ferme, sono queste attività le più a rischio di nuovi focolai epidemiologici.
Poco o nulla c’è da dire sulla visibilità che ha acquisito il settore sociosanitario, dal personale medico a quello infermieristico, a quello delle pulizie.
Si pone una nuova questione degli orari, per mantenere le norme di distanziamento, per la difficoltà di adeguare gli impianti nel rapporto in copresenza addetti/spazi a disposizione, per dilatare e rarefare la concentrazione della popolazione lavoratrice nelle fasce orarie di pendolarismo, ecc. La risposta può essere soltanto la riduzione di orario a parità di salario.
Ma la lunga fase di chiusure ha accelerato il processo di trasformazione della prestazione lavorativa nel settore dell’economia immateriale e nella pubblica amministrazione. Discutere a fondo delle implicazioni dirette e indirette, sia sulla prestazione lavorativa che sul contesto sociale, del lavoro agile diventa questione dirimente per far sì che una possibilità che può essere positiva perché offre nuove possibilità riducendo il tempo extraorario di lavoro, ma destinato al lavoro (i tempi di spostamento) e le spese (i trasporti), non si ritorca in una nuova forma di dequalificazione e pauperizzazione del lavoro che annulli le conquiste legislative e contrattuali in termini di salute e sicurezza dell’ambiente di lavoro, di orari di lavoro, di misurazione della prestazione che potrebbe passare attraverso la definizione degli “obiettivi” a nuove forme di cottimo.
Sullo sfondo, il rischio di una riorganizzazione delle prestazioni che lasci sul terreno, oltre la crisi, centinaia di migliaia di disoccupati in più.