Voglio segnalare, in ordine sparso, senza pretese di essere esaustivo e neppure di indicare se non in linea di massima possibili priorità, alcune questioni che assumeranno un crescente rilievo nell’immediato futuro. Così prossimo che rischia di essere già anteriore.
La pandemia - si esaurisca o prosegua con minore intensità o con improvvisi picchi - lascia una crisi profonda nei settori del commercio al dettaglio, della ristorazione, del turismo per la difficoltà di movimento, di gestione degli spazi, di capacità di spesa dei consumatori.
La diffusione del lavoro agile, del lavoro da remoto, che può essere determinata dalla necessità di mantenere le norme di distanziamento, per la difficoltà di adeguare gli impianti nel rapporto in copresenza addetti/spazi a disposizione, per dilatare e rarefare la concentrazione della popolazione lavoratrice nelle fasce orarie, produrrà ulteriori effetti sui livelli occupazionali nei servizi per tutte le attività accessorie, da quelle edilizie, alle mense, a quella rete di piccoli esercizi, bar, trattorie, che vivono della ristorazione veloce e grazie ai ticket degli impiegati.
Conosceranno una contrazione, per gli stessi motivi e per la possibile riorganizzazione del settore dei servizi alle imprese e dell’attività immateriale e della pubblica amministrazione, i settori del pulimento, della manutenzione, della guardiania.
Sono a rischio centinaia di migliaia di posti di lavoro.
La pandemia ha disvelato tutta la fragilità in termini di certezza economica di settori economici basati sul consumo di territorio e sul consumo senza legami con l’attività primaria e secondaria. La prima comunque caratterizzata da una pesante incidenza di lavoro nero irregolare, la seconda non ancora uscita, specie nei grandi gruppi, dalla crisi iniziata nel 2008/2009…
Si pone la questione del ruolo dello Stato, non di un generico “pubblico”, nel riorientare strategicamente l’economia facendo del lavoro buono, dei suoi diritti, dell’innovazione e degli investimenti produttivi il perno della ricostruzione del Paese.
Si pone la questione della reindustrializzazione del paese. Che nessuno immagini una reindustrializzazione fatta di ciminiere e di cemento. Serve una reindustrializzazione verde ed ecologica, basata sulle produzioni ecocompatibili che metta a frutto il talento e le capacità imprenditoriali con una ferma mano pubblica che orienti l’economia e crei un’armonia tra il settore agricolo, quello industriale e un turismo legato alla qualità, alla cultura, alla valorizzazione del patrimonio storico, culturale, museale, ricreativo.
Si pone una nuova questione degli orari. La riorganizzazione delle attività produttive, in tutti i settori, anche in quelli industriali, pone di nuovo la questione dell’orario di lavoro. Anche la riorganizzazione degli spazi della prestazione lavorativa e degli spostamenti casa-lavoro richiede una diversa organizzazione dei tempi di vita e di lavoro. La risposta può essere soltanto la riduzione di orario a parità di salario. Altrimenti, il part-time insegna, saranno le imprese a determinare, unilateralmente e a partire dalla centralità del profitto, tempi e modi della prestazione lavorativa.
Ma la lunga fase di chiusure ha accelerato il processo di trasformazione della prestazione lavorativa nel settore dell’economia immateriale e nella pubblica amministrazione. Discutere a fondo delle implicazioni dirette e indirette, sia sulla prestazione lavorativa che sul contesto sociale, del lavoro agile, diventa questione dirimente per far sì che una possibilità che può essere positiva - perché offre nuove possibilità riducendo il tempo extraorario di lavoro, ma destinato al lavoro (i tempi di spostamento) e le spese (i trasporti) - non si ritorca in una nuova forma di dequalificazione e pauperizzazione del lavoro che annulli le conquiste legislative e contrattuali in termini di salute e sicurezza dell’ambiente di lavoro, di orari di lavoro, di misurazione della prestazione che potrebbe passare attraverso la definizione degli “obiettivi” a nuove forme di cottimo. Aggiungo che la legge istitutiva dello smart working è dentro la logica della legge Sacconi e del jobs act, perché trasforma un rapporto di lavoro contrattualmente e collettivamente garantito in un contratto individuale che scarica sul lavoratore le condizioni i costi e la sicurezza della prestazione…, il passaggio allo smart working deve essere accompagnato da una contrattazione collettiva nazionale e aziendale che tuteli i lavoratori, oltre l’apparenza dello scambio libertà nella prestazione/deresponsabilizzazione dell’impresa!
Non ci può essere ripresa economica senza partecipazione democratica e un ruolo delle classi lavoratrici. Sembra difficile fare questa affermazione oggi di fronte alla devastazione culturale e valoriale che investe l’Italia e che vede una regressione culturale profonda proprio delle masse popolari, spesso cassa di risonanza e bacino delle idee più retrive e reazionarie. Ma senza democrazia e partecipazione il Paese non può fare le scelte decisive e reggere il peso di un processo che sarà lungo e difficile.
Il ruolo dei sindacati sarà decisivo, per far vivere e prevalere un punto di vista generale contro l’egoismo e la miopia dei padroni, la sudditanza psicologica della classe politica nella sua larga maggioranza da destra a “sinistra” al liberismo economico. Ma i sindacati sono fatti di uomini e donne in carne ed ossa, di delegate e delegati che si espongono sui luoghi di lavoro. Senza democrazia nei luoghi di lavoro sono esposti di fronte al padrone. La Legge 300 portò la Costituzione nei luoghi di lavoro. Il jobs act, manomettendo l’articolo 18, ha manomesso alla base la possibilità per una lavoratrice e un lavoratore di esporsi iscrivendosi al sindacato o più ancora candidandosi a divenire RSA o RSU.
Riportare la democrazia nel posto di lavoro è parte integrante della lotta per una svolta economica e sociale.
Nel Piano del Lavoro della CGIL e nella Carta dei diritti, la bibbia che ci deve orientare nell’azione sindacale.