Nelle lunghe settimane chiusi in casa di marzo ed aprile, si sentivano spesso dire due frasi: “tutto andrà bene” e “ne usciremo cambiati”…
La prima rimane una speranza, anche se purtroppo non tutto è andato bene, in particolar modo qui in Lombardia. La seconda affermazione è vera. Ne usciremo cambiati: ognuno di noi dovrà confrontarsi e ognuno di noi dovrà remare nella direzione del bene comune per poter condizionare questo cambiamento. E’ una fase cruciale e come sindacato dobbiamo esserci ed essere protagonisti del cambiamento.
Il sistema degli appalti in questi mesi di crisi ha messo in luce tutta la sua fragilità.
Sistema fragile, che nasce con una coperta corta che quotidianamente noi tiriamo verso i lavoratori e le aziende verso il profitto.
Dalle gare Consip e delle centrali di acquisto regionali, inadeguate e volte al dogma del massimo ribasso, nel corso degli anni sono stati affidati appalti pubblici del valore di svariati milioni di euro ad aziende con capitale sociale di 20 mila euro, con uffici in uno scantinato, che passano da 20 dipendenti a 2000 da un giorno all’altro e che poi, quando arriva l’imprevisto, non sono in grado di far fronte alla situazione.
Con l’arrivo della pandemia e la chiusura di gran parte delle mense private e pubbliche a partire dallo scolastico, ci siamo trovati ad affrontare l’emergenza attraverso il Fondo di integrazione salariale, strumento poco utilizzato negli anni, ma che ci dava comunque una certa tranquillità.
Peccato però che con il primo decreto Covid di marzo il Governo abbia deciso di sollevare le aziende dall’obbligo di anticipo dell’assegno ordinario FIS, come invece previsto dalla normativa ordinaria. Per tante aziende è stato facile, a questo punto, lavarsene le mani, presentare domanda di pagamento diretto INPS e tanti saluti alle migliaia di dipendenti che da marzo aspettano la retribuzione.
Non voglio sostenere che questa sia stata la norma. Abbiamo avuto aziende piccole, con il 70% di fatturato azzerato che comunque hanno anticipato il FIS ai propri lavoratori, così come abbiamo avuto multinazionali con fatturati stratosferici, che si fregiano di certificazioni etiche e di essere vicini ai propri “collaboratori”, che hanno invece chiesto pagamento diretto all’INPS!
Da questa pandemia ne usciremo cambiati e in questo settore va capito subito come ne usciremo. Per la ristorazione collettiva ci sono due ordini di problemi: il primo è lo scolastico, il secondo è l’aziendale. Le linee guida del Governo sulla riapertura delle scuole a settembre danno di fatto la palla in mano ai singoli dirigenti scolastici. Ma dove mangeranno i bambini? In classe? In refettorio? In palestra? Si useranno stoviglie usa e getta? Si dovranno lavare stoviglie e termiche? Ci sarà lo “scodellamento” o i pasti saranno richiesti in singole monoporzioni? Molto cambierà sulla base di ciò che verrà deciso in questi mesi estivi, e noi dovremo esserci su ogni tavolo in cui si discuterà questo tema. Non possiamo permetterci di subire lo scaricabarile sull’ultimo anello della catena, cioè il lavoratore della mensa. Dovremo esserci con un occhio alla sicurezza di tutti, con la consapevolezza che nulla sarà come prima, ma con la determinazione di gestire e partecipare al cambiamento portando gli interessi di chi rappresentiamo.
Altro tema è quello delle mense aziendali, che nelle grandi città sono sopravvissute ai grandi cambiamenti dall’industria al terziario. Già ieri a fatica queste mense reggevano la concorrenza del ticket o del bar all’angolo, ma domani che ne sarà? Lo smart working, che all’italiana è “lavoro da casa”, sembra sia la nuova rivoluzione all’orizzonte. Molte aziende vi vedono la possibilità di risparmiare sui costi fissi e di scaricarne una parte sui dipendenti: attrezzature, postazioni, costi di gestione e relativi investimenti.
E inoltre, cosa sarà delle mense se, come sta succedendo oggi, interi uffici sono chiusi e si lavora da casa? Cosa sarà del personale del pulimento, dei portieri, di tutti i servizi che ruotano intorno e dentro la sede fisica delle aziende?
Per questo sarà fondamentale un lavoro coordinato tra le diverse categorie: una vera e propria contrattazione di sito che tenga dentro tutti e che tenga in considerazione ogni aspetto della filiera: dall’impiegato al portiere, dal quadro all’addetto mensa, nessuno può essere lasciato indietro o da solo o messo in contrapposizione l’un l’altro.
Alla luce di questi due temi, la preoccupazione per la tenuta occupazionale del settore è forte. Parliamo di lavoratori “deboli”, con stipendi part-time involontari di 15/20 ore e paghe orarie, come nel multiservizi, che sono intorno alle 7 euro.
Se questo serbatoio di lavoro poco retribuito, poco professionalizzato, composto principalmente da donne e lavoratori stranieri, dovesse implodere, che ne sarà di questa fascia di lavoratori? Quale altro settore sarà in grado di assorbire questa classe di lavoratori?
Il rischio che corriamo è che si crei una larga fetta di povertà, a cui, ad oggi, le uniche risposte temporanee sono eventualmente la Naspi o il reddito di cittadinanza. Verso quale futuro ci stiamo dirigendo? Un futuro in cui il lavoro è ancora un mezzo di autodeterminazione dell’individuo e della società, o un futuro in cui l’individuo è “libero dal lavoro” ma non come intendeva Marx, semplicemente perché disoccupato che vive di assistenza…?
I temi da affrontare nei prossimi mesi saranno molti e di grande spessore, non vorrei esagerare nel definirli epocali. E noi dovremo farci trovare pronti, determinati e puntuali. Se è vero che ne usciremo cambiati, dovremo fare il possibile per render vero anche che “andrà tutto bene”.