Rimini, seminario nazionale Filcams della Sinistra Sindacale - Conclusioni di Giacinto Botti*

*Referente nazionale di Lavoro Società in CGIL

 

Ringrazio per l’invito e rivolgo un caro saluto alle compagne e ai compagni presenti. Ho seguito i vostri lavori di questi intensi tre giorni, e ho partecipato con interesse alle tre commissioni di lavoro. Confesso di essere un po’ in difficoltà con le conclusioni perché sono molto portato, per mia natura, a interrogarmi e a interloquire con le delegate e i delegati, ma allo stesso tempo so che devo ricoprire anche il ruolo di referente nazionale, per cui ho il compito di dire cosa pensiamo di fare in prospettiva e quali sono i nostri obiettivi di sinistra sindacale. Tengo in modo particolare a ringraziare Andrea per la piena riuscita di questo seminario nazionale, le compagne e i compagni presenti e coloro che hanno portato il loro significativo e interessante contributo.

Questi tre giorni confermano la scelta non facile compiuta anni fa di mantenere in vita “Lavoro Società” come sinistra sindacale organizzata della CGIL; inoltre ci ripagano e danno conto della forza e della ragione stessa che ci hanno permesso di superare i tanti momenti difficili caratterizzati da divisioni, problemi, rotture politiche e personali che abbiamo dovuto affrontare tra di noi e anche nella Confederazione. Oggi siete la testimonianza della giustezza della scelta fatta di non disperdere la nostra esperienza collettiva, ma soprattutto del fatto che la CGIL ha più che mai bisogno di una sinistra sindacale, di tutti voi e di tutti noi: perché o la CGIL è democratica e plurale, è un soggetto di rappresentanza confederale culturale e valoriale capace di proposta, di pensiero alto, oppure la CGIL non è: questo è il nodo che ancora deve essere sciolto.

Andrea ha aperto il seminario con una bella, compiuta e tradizionale relazione introduttiva, è partito dagli aspetti internazionali per poi scendere fino a noi e al particolare della categoria mantenendo un approccio generale e confederale, questo mi permette di non prendere in esame tutte le tematiche da lui toccate, dalla situazione internazionale sino al ginepraio della politica italiana, e di soffermarmi maggiormente sul ruolo e il rapporto con le delegate e i delegati concentrando l’intervento su di noi, sulla sinistra sindacale, sulla CGIL di oggi e del futuro. Sto leggendo ora la frase finale dell’introduzione, quando Andrea fa richiamo alla nostra storia come frutto prezioso costituito da: “Sindacalisti e militanti della CGIL del futuro, con le radici ben salde, ma non con la testa volta all’indietro.” Sento il dovere e l’esigenza di dire subito che tutti noi siamo protagonisti di una storia collettiva, di un’esperienza trentennale di sinistra sindacale organizzata che arriva da lontano e che nessuno di noi vuole disperdere: vogliamo continuare la nostra esperienza non di “una” ma “della” sinistra sindacale rinnovata e rappresentativa, perché se il nostro obiettivo è la ricomposizione del lavoro e la riunificazione di ciò che la crisi ha diviso e frantumato, noi non possiamo non porci il tema di come ricostruire e riunire tutta la sinistra sindacale della CGIL nel rispetto delle regole date e di quanto indicato dallo statuto.

Una sinistra sindacale capace di elaborare, di fare proposte, di essere punto di riferimento e risorsa in una CGIL unita e plurale, e di contribuire alla formazione sindacale, alla crescita culturale e valoriale delle delegate e dei delegati.

Oggi il vostro seminario è parte di questo impegno. Credo che se avessero partecipato anche i Segretari generali delle altre categorie o altri dirigenti della nostra organizzazione, avrebbero tratto una buona esperienza da questa tre giorni, a partire dal bisogno di mettere a confronto le varie esperienze per ricercare risposte non solo categoriali ma di ordine confederale, per ampliare il sentire comune attraverso lo scambio delle proprie esperienze, come avete fatto in questo seminario.  Per coinvolgere e rendere protagonisti coloro che esercitano la contrattazione e affrontano con difficoltà i problemi di chi lavora, facendo sindacato nei luoghi di lavoro, quelle delegati e quei delegati come voi che esercitate questo ruolo di rappresentanza della CGIL e della vostra categoria spesso in solitudine e pagando anche dei prezzi personali. Tutto oggi è più difficile rispetto a quando fare il delegato era gratificante, entusiasmante e riconosciuto. Senza la rappresentanza nei luoghi di lavoro non esisterebbe il sindacato della contrattazione e della partecipazione. Non esisterebbe questa CGIL. Dopo aver vissuto questi tre giorni belli e intensi sono sempre più convinto che questa sia la strada da percorrere.  Come dicevo, noi siamo protagonisti e parte di una storia collettiva, e a tale proposito permettetemi di ricordare Bruno Rastelli e Sandra Cappellini, con l’affetto che nutro verso di loro come verso tanti altri delegati e dirigenti che ci hanno lasciato, ma con particolare rimpianto: Bruno e Sandra hanno contribuito a costruire la sinistra sindacale nella confederazione e nella categoria, erano e sono ancora parte della vostra, della nostra storia collettiva; una storia che sento come un dovere non disperdere e consegnare a tutte e tutti voi per continuare, pur su basi nuove, a farla vivere. Con Bruno ho vissuto momenti straordinari, dal Movimento dei consigli del 1992 al Coordinamento nazionale RSU; con Sandra Cappellini come con Rossano Rossi e Maurizio Brotini ci siamo trovati, divisi e poi ritrovati. Siamo orgogliosamente militanti della CGIL, siamo e rimaniamo, anche se non sempre ci viene riconosciuto, un patrimonio e una ricchezza per tutta la CGIL.

Un compagno prima ha detto la sua data di nascita: 1973. Bella data. La mia data invece è il 1978. Ovviamente non è il mio anno di nascita bensì quello in cui sono stato eletto delegato del Consiglio di fabbrica della GTE (General Telephone and Electronics) per poi passare in Siemens e in Italtel: totale, ventisette anni da delegato sindacale. Una storia che ti entra nella pelle e non puoi scordare. Penso per questo di rivolgermi direttamente alle delegate e ai delegati presenti senza retorica ma con affetto, sapendo delle difficoltà che si incontrano oggi, forse più di ieri, nel ricoprire questo ruolo non sempre adeguatamente riconosciuto.

Care delegate e cari delegati, ribellatevi, criticate, pretendete, ma partecipate alla vita dell’organizzazione per migliorarla, aggiornarla, rinnovarla, perché voi, com’è stato per la mia generazione, siete la linfa vitale, la risorsa necessaria per la vita e per il rinnovamento generazionale della categoria e della confederazione. La CGIL può essere solo un’organizzazione plurale e democratica della partecipazione e della contrattazione: o è questo, o non è la CGIL.

Mi permetto di leggere una parte significativa del nostro documento nazionale “La CGIL del futuro” che abbiamo scritto e collettivamente condiviso per delineare il percorso della costruzione della sinistra sindacale e portato a conoscenza della nostra Organizzazione. “Rinnovare in CGIL non è rottamare; significa prima di tutto valorizzare e fare incontrare le generazioni, consapevoli che una nuova leva di delegate e delegati, di volontari va conquistata, formata e aiutata nella dura prova della contrattazione aziendale, categoriale e sociale.  Le nuove generazioni in CGIL, come sempre, hanno bisogno di fare nuove esperienze, e quelle vecchie hanno il dovere di trasmettere il proprio sapere, in un reciproco riconoscimento. Perché fare il sindacalista e il delegato non è un lavoro, un impegno come altri, oggi più di ieri bisogna avere passione, esperienza e responsabilità. Il contesto e il periodo storico richiedono di tenere la prua rivolta al mare aperto, non solo per ricomporre ma anche per ricostruire, perché rinchiudendosi nei porti si muore e si perde la sfida del futuro.

Parto da questo incontro tra generazioni perché durante lo svolgimento dei gruppi di lavoro, ascoltando le delegate e i delegati porre i loro problemi, denunciare le loro difficoltà, i rapporti di forza svantaggiosi e soprattutto i difficili rapporti con i lavoratori, mi sono rivisto giovane delegato. Nel 1978 c’era un altro contesto, un’altra classe operaia, un altro blocco sociale, e in campo c’erano altri partiti. Era il momento dell’acquisizione, della conquista, della partecipazione e della solidarietà di classe, fare il delegato era una scelta valorizzata, significava riconoscimento e supporto della parte migliore della classe lavoratrice: il delegato la rappresentava nelle trattative e portava conquiste. Eravamo espressione di gruppi omogenei, di un’idea collettiva di essere e di fare sindacato, eravamo lavoratori tra i lavoratori, si mangiava, si lavorava fianco a fianco. Il delegato era scelto in una competizione elettorale, incideva sulla condizione lavorativa e su quella economica, ma era anche un soggetto sindacalizzato e politicizzato che accompagnava la lotta sindacale con la lotta politica, valoriale e culturale.  C’erano difficoltà, certo, repressioni e discriminazioni, ma sono convinto che fare il delegato allora, pur non essendo facile, fosse più gratificante rispetto a oggi: eravamo più protetti e maggiormente riconosciuti dai lavoratori, dall’organizzazione. Personalmente ho ricevuto delle denunce penali, dal blocco stradale al blocco merci, dall’occupazione del suolo pubblico alla resistenza a pubblico ufficiale, tuttavia mi sono salvato perché c’era solidarietà, copertura politica e sindacale e rapporti di forza adeguati. Non c’erano i decreti sicurezza di Salvini, discriminatori, razzisti e socialmente pericolosi per tutti coloro che lottano e manifestano. Con quelle imputazioni, con i decreti sicurezza potrei essere condannato a quattro anni di galera.

La CGIL deve ribadire con forza la richiesta avanzata ai partiti di sinistra e all’attuale governo di cancellare il decreto Salvini, antisociale e pericoloso quanto l’ex ministro degli Interni razzista, fascistoide e fomentatore di odio di cui porta la firma.  Per fortuna è stato mandato a casa, ma purtroppo non sono andate a casa quella cultura e quelle tendenze che fanno presa anche tra i nostri iscritti e che hanno pervaso i luoghi di lavoro. Come non è andato a casa lo scontro di classe che si perpetua, si ripresenta in veste moderna nei luoghi di lavoro, nelle relazioni sindacali e nelle scelte economiche e sociali dei vari governi. Siamo in presenza da sempre di una classe di padroni, di un capitale che si muove alla ricerca del massimo profitto riducendo i diritti e aumentando lo sfruttamento di chi lavora. Questa semplice ed evidente realtà viene però rimossa. Inoltre, essendo dinanzi a un capitalismo globalizzato, non riusciamo più, né sindacalmente né politicamente, a controllare, a governare i processi in atto. Come hanno dimostrato vicende come quella della Whirpool e della stessa ex Ilva: multinazionali che disconoscono accordi e impegni, con la testa finanziaria e il comando da un’altra parte, che decidono di spostare o chiudere un’azienda senza controllo politico e nessuna responsabilità sociale, mettendo sul lastrico migliaia di lavoratori e depauperando il tessuto produttivo del Paese e dei territori.

Si vive l’impotenza sindacale, l’incapacità e l’insignificanza della politica di interagire e di agire, di condizionare le scelte di un capitale che si muove e si sposta nel libero mercato a convenienza globale. Questo è un fattore dirimente rispetto a una politica sorda, lontana dal lavoro e dai processi reali, dalle condizioni materiali delle persone, che si porta appresso la grande responsabilità di non aver agito, di non aver visto i blocchi sociali che si stavano scomponendo, di aver rimosso lo scontro capitale/lavoro, di non aver fermato, anzi di aver favorito con leggi sbagliate, le diseguaglianze e il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di intere generazioni. Di essersi persa nel post ideologico, nel post moderno, nel post industriale, mentre il Paese si trasformava e declinava sul piano materiale e sociale. I riferimenti sociali e politici di destra e sinistra sono lungi dall’essere superati. Se sei a sinistra, devi avere al centro il lavoro, la condizione lavorativa, devi indicare il blocco sociale di riferimento, il soggetto della trasformazione; poi, com’è naturale in una democrazia parlamentare, fai tutte le alleanze politiche opportune per conquistare il consenso e il governo.

Tutto il mondo del lavoro, di ieri e di oggi, ha la necessità di essere adeguatamente rappresentato, di percepire e concretamente verificare che i partiti, il governo, la politica rimettano il lavoro al centro del dibattito e del confronto politico.  Questa situazione difficile interroga tutto il sindacato, la CGIL in particolare. Ci obbliga a guardarci dentro, ad analizzare ritardi ed errori; significa avere la consapevolezza della nostra non autosufficienza, del bisogno della nostra autonomia ma contemporaneamente del bisogno di un partito di massa di riferimento. Non sono antipartitico o antipolitico, sono per difendere la nostra ritrovata autonomia, rafforzata in questi anni di governi “tecnici” e di centrosinistra, capace di elaborare proposte e progetti con lo sguardo rivolto al futuro. La scelta di fare la raccolta delle firme per il nuovo statuto, di combattere il Jobs Act, di lottare per il ripristino dell’art. 18 e di chiedere i referendum per cancellare leggi sbagliate ci hanno ridato forza e credibilità che non vanno disperse. Come deve trovare gambe e coerenza quanto abbiamo indicato nel nostro documento congressuale.  Leggevo alcuni dati allarmanti che danno il senso del Paese reale e del fatto che se vuoi risalire la china devi riconoscere gli errori, i limiti della tua elaborazione, del tuo fare sindacato e del tuo fare politica. Se questo Paese è deturpato sul piano occupazionale e valoriale, con le differenze che sono evidenti fra Nord e Sud, fra uomini e donne, il problema è che qualcuno non ha governato, ha guardato da un’altra parte o ha fatto politiche sbagliate.

 

 

Siamo messi così perché la politica non ha dato risposte adeguate. E questo riguarda anche il sindacato. Penso che un bravo sindacalista, un buon dirigente dovrebbe guardarsi indietro e domandarsi sempre cosa si è sbagliato, quali errori sono stati fatti nelle politiche contrattuali negli ultimi quindici-vent’anni.  Quante porte abbiamo contribuito ad aprire alle divisioni, alle discriminazioni nei luoghi di lavoro, quanti accordi dumping abbiamo firmato producendo divisioni tra giovani assunti e vecchi occupati, tra chi manteneva non certo dei privilegi ma i propri diritti conquistati e coloro che entravano e ai quali quegli stessi diritti venivano negati? Quante diseguaglianze nel lavoro e tra i lavoratori abbiamo contribuito, per scelta o condizione, a determinare con la nostra contrattazione? Rivisitare quelle pratiche e quelle politiche significa mettersi sull’onda del Congresso, agire coerentemente per voltare pagina, per avere un altro approccio e un’altra prospettiva nel fare sindacato, nella contrattazione solidale e inclusiva, nel condurre una lotta sindacale, contrattuale valoriale e radicale. Non fraintendetemi: a mio avviso il termine radicalità è opportuno e non vuol dire né estremismo né isolamento, bensì la capacità dinanzi alle grandi sfide di agire, contrattare e mediare dentro un orizzonte e un progetto, una prospettiva alternativa al liberismo, al capitalismo predatorio e aggressivo. Questa è la sfida in campo. Per vincerla dobbiamo ricostruire rapporti di forza, conoscenza e coscienza collettiva, abbiamo bisogno di incrociare e conoscere il lavoro di ieri e di oggi, di recuperare consapevolezza e identità di classe tra chi lavora e di riportare i bisogni, la sofferenza individuale dentro l’azione e la dimensione collettiva attraverso una struttura, uno strumento che si chiama sindacato.  Perché oggi più di ieri il lavoratore vive e sente la sua solitudine. E noi dovremmo, come CGIL e come categoria, arrivare a organizzarlo non dopo ma prima, dotandoci di nuove strumentazioni, di un linguaggio adeguato, coltivando un rapporto nuovo tra le generazioni.  Tutto questo non sarebbe possibile senza il ruolo e il lavoro delle delegate e dei delegati.
Senza insediamento e rappresentanza nei luoghi di lavoro la CGIL rischia di cambiare pelle, di trasformarsi in burocrazia, in struttura di servizi, e purtroppo già presenta alcuni preoccupanti segnali di tale deriva. Non nascondiamocelo: la CGIL è una straordinaria organizzazione, ma non è immune dalla burocrazia e dalla deriva culturale e valoriale del Paese che attraversa anche noi. Abbiamo certo gli anticorpi, ma la difesa della nostra identità e dei nostri valori è quotidiana, e la battaglia culturale e politica non è mai vinta.  Non a caso nella relazione Andrea sottolineava che chi aderisce alla CGIL deve prendere tutto il pacchetto dei suoi valori. Noi di quel pacchetto siamo parte integrante, e come sinistra sindacale vogliamo esserne custodi e interpreti, essere avanguardie nel senso pieno e nobile del termine. Avanguardie con un forte senso di appartenenza e di responsabilità, come abbiamo dimostrato nei richiamati 30 anni di storia della sinistra sindacale organizzata. Dal 1978 in poi sono stato uno dei tanti delegati ribelli, radicali della sinistra sindacale, ne ho percorso la storia, sono cresciuto e mi sono formato come tanti dentro quella storia. Abbiamo fatto battaglie politiche e sindacali nell’organizzazione e nei luoghi di lavoro, abbiamo condotto battaglie congressuali storiche, ma soprattutto eravamo avanguardie nei luoghi di lavoro e costruivamo movimenti dal basso dando voce e rappresentanza ai delegati e ai Consigli di fabbrica.

Il ’92 e il ‘93 sono stati anni particolarmente difficili per il sindacato; nel 1992 a Milano un gruppo di delegati, con i loro Consigli di fabbrica, costituirono il Movimento dei consigli che ho inizialmente richiamato. Per oltre due anni quel movimento ha avuto un ruolo significativo arrivando ad avere l’adesione di oltre 800 Consigli di fabbrica. Un movimento non sufficientemente conosciuto e riconosciuto, che ha contribuito a tenere e organizzare le piazze, a governare le proteste favorendo la tenuta politica e organizzativa della stessa CGIL insieme al cambiamento della linea concertativa e di scambio di quegli anni.  C’era il governo Amato, la crisi economica e una proposta di finanziaria pesante nei confronti del ceto popolare e del mondo del lavoro dipendente, l’attacco alla scala mobile e lo scambio salariale. Erano anni di dura contestazione di piazza verso i dirigenti sindacali di allora (fu definita la stagione dei plexiglas perché i sindacalisti parlavano protetti da scudi di plastica). Quel movimento ha resistito e ha retto l’urto dell’abbandono della nostra organizzazione. Il 27 febbraio 1992 portammo, come Movimento dei consigli, trecentomila persone a Roma, in piazza San Giovanni.

Da quel Movimento scaturì il bisogno di rinnovamento e il percorso della nascita delle attuali RSU e della democrazia di mandato.  Quella fu un’esperienza straordinaria per me e per migliaia di delegati. Siamo stati protagonisti insieme a tanti altri del cambiamento, la sinistra sindacale in CGIL ha trovato slancio e rappresentanza. Eravamo tante e tanti delegate e delegati della CGIL, eravamo una risorsa critica ma fortemente ancorata alla nostra organizzazione.  E vorrei dire al gruppo dirigente di oggi di non dimenticare la storia e le esperienze: valorizza e riconosci il pluralismo programmatico e delle idee, cancella le cordate burocratiche e di potere, dà valore alle strutture collettive e decisionali come il Direttivo e l’Assemblea dei delegati, perché le cordate di potere, la burocratizzazione, la deriva dell’uomo solo al comando e della pratica accentratrice dei Segretari generali avvelenano il nuovo corso della CGIL e sono mortali per la linea politica congressuale e per lo stesso Segretario generale. L’antidoto è mantenere l’organizzazione democratica e plurale e il rapporto con i delegati e con i luoghi di lavoro mai strumentale. Se perdessimo la capacità di mettere al centro le condizioni materiali di chi lavora, perderemmo il diritto di parola e di rappresentanza. Come diceva Gramsci, la fantasia in politica ha per elementi gli uomini, la società degli uomini, i dolori, gli affetti, le necessità di vita degli uomini. Mi riallaccio a quanto si è discusso anche ieri riguardo all’individualismo, al rapporto di egemonia che Giancarlo Straini ha riportato con le sue slide, rapporto che è sì di natura pedagogica ma anche di forza (è un rapporto fra le classi).  Si può chiamare come meglio si crede e con un linguaggio moderno, ma alla fine il nodo è quello dei rapporti tra le classi: vivi in un Paese disuguale, con una ricchezza enorme mal distribuita, con un’incapacità di investimento pubblico, che si sta depauperando del suo tessuto produttivo, dove la divisone tra Nord e Sud si sta accentuando ed è in atto una competizione pericolosissima tra lavoratori e disoccupati, giovani e anziani, pensionati e chi non sa se la pensione la vedrà mai. Se noi e la sinistra politica non sapremo riunificare i soggetti dello scontro attorno a un progetto alto, unificante e solidale, vincerà la peggiore destra, vinceranno la divisione, il qualunquismo e l’egoismo, il razzismo e la xenofobia, perché ognuno si chiuderà  dentro la propria esistenza personale.

Dobbiamo sconfiggere su tutti i fronti la decadenza della società, affermare l’interesse generale su quello particolare rimettendo al centro la centralità e il valore del lavoro.  La confederazione ha la responsabilità e il compito di rendere comprensibile e agibile la complessità in quanto soggetto politico di rappresentanza sociale che ha come riferimento i valori della nostra Costituzione. Noi continuiamo ad essere la grande organizzazione con oltre cinque milioni di iscritti e ben oltre 100 anni di storia. Il Censis ci dice: “Siamo un Paese disuguale con milioni di poveri che la politica ignora da anni. I dati: 18 milioni a rischio di esclusione sociale, 9 in povertà relativa, 5 in povertà assoluta; 10 milioni hanno difficoltà a farsi curare…” cioè il diritto alla salute è andato a spasso… “…4 sono i milioni di lavoratori poveri, un milione i minori nell’indigenza”. Una vergogna elusa, resa invisibile in questi anni da tutti i governi e da tutti i politici. Chiunque abbia governato ha portato sostanzialmente avanti le stesse ricette (dobbiamo dircelo): tagli al sociale, al sistema pubblico, austerità, fiscalità regressiva, nessuna riforma innovativa del welfare, mancate bonifiche ambientali (a proposito di questo, non c’è emergenza ambientale che si possa risolvere se non si risolve prima l’emergenza sociale: le due cose vanno insieme), precarizzazione del lavoro, privatizzazioni, mancati investimenti, aumento delle disuguaglianze, darwinismo sociale, criminalizzazione della solidarietà, dell’immigrato, delegittimazione delle rappresentanze sociali indicate dai più con il termine fastidioso di corpi sociali intermedi. Il linguaggio è importante, fa cultura, e la cultura fa coscienza: chiamare privilegi quelli che sono diritti e conquiste è sottocultura, dare nome e cognome all’immigrato, non vederlo come uno che ruba e usurpa un tuo diritto ma come persona significa fare cultura. Distinguere tra chi vende forza lavoro e chi la compra è fare cultura. La cultura, la formazione e l’informazione sono decisive per creare conoscenza e coscienza.  Faccio un inciso: pensate al danno valoriale e culturale che è stato fatto in Europa e in Italia con la scelta del Parlamento europeo di votare una mozione che accomuna il nazismo al comunismo. Per questo occorre ribadire ora più che mai che per la CGIL la lotta politica, sindacale e sociale deve sempre essere accompagnata dalla battaglia culturale e valoriale, altrimenti perdiamo tutti. Ora lasciatemi dire una cosa alla quale tengo. L’indifferenza (Gramsci scrisse cose terribili a questo proposito), la complicità, l’ignominia della politica e di quella zona grigia conservatrice e reazionaria di cui parlava Primo Levi costituiscono un problema grave a fronte della pericolosa deriva di destra del Paese; un problema sottovalutato e rimosso anche a sinistra. Il nazionalista, il razzista e populista Salvini non lo combatti escludendolo dal Palazzo ma escludendolo dal cuore e dalla coscienza delle persone, lo vinci nelle piazze e nei luoghi di lavoro, non inseguendolo ma con una coerente e durissima battaglia politica. Il nuovo e traballante governo deve dare dei veri segnali radicali su tutti i fronti, altrimenti non ha ragione di esistere.

La zona grigia di un Paese che non ha mai fatto i conti con il ventennio fascista e le sue nefandezze mi spaventa. Leggo uno scritto che mi ha turbato: “Li ho visti scuoiati vivi, le ho viste stuprate fino alla paralisi.  E questo è quello che può essere raccontato. Perché ho visto anche cosa succede a chi scappa dalla Libia e viene riportato lì. No, quello non si può neanche raccontare, va ben oltre le torture nei campi di concentramento nazisti, tecnologicamente più avanzati dei lager libici, dove non c’è il gas a stordirli prima della fine.”.

Sono parole terribili scritte da Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa eurodeputato che ha visitato le carceri libiche. In quelle carceri li abbiamo messi noi con un decreto, con un accordo fatto dal governo Gentiloni. Penso che la sinistra oggi al governo debba mettere in discussione i decreti sicurezza di Salvini, ripartire dallo ius soli, cancellare la Bossi-Fini e soprattutto l’accordo con la Libia e il sostegno economico che ancora garantiamo.  Penso che essere di sinistra ed essere della CGIL significhi parlare anche di questo, affrontare queste questioni. Essere confederali significa che dovremmo agire sul particolare ma pensare al globale.

Ascoltando le compagne e i compagni in questi tre giorni, ho percepito che i problemi sono uguali ad allora anche sulla sicurezza nei luoghi di lavoro: i RLS fanno fatica a rapportarsi con le RSU, la cultura della sicurezza non è diffusa in un Paese nel quale il diritto alla salute e alla vita è contrapposto al diritto al lavoro e il padronato considera la prevenzione un costo e non una risorsa. Intanto le morti sul lavoro e le malattie professionali sono in aumento, e i lavoratori subiscono e accettano questi ricatti sulla loro pelle. Non è un fatto ineluttabile, ma la conseguenza di gravi responsabilità del padronato e della politica. Occorre radicalità e determinazione per affrontare questo e altri problemi del Paese, e serve una sinistra sindacale che con senso di appartenenza conduca la lotta politica anche all’interno di un’organizzazione complessa come la CGIL. Questa è la ragione sostanziale di esistenza della sinistra sindacale. Puoi parlare di contrattazione inclusiva, di rappresentanza, di rappresentatività e di sicurezza, ma c’è un filo che le accomuna: la condizione lavorativa. La funzione sociale di un sindacato come la nostra confederazione è riunificare il mondo del lavoro, parlare al lavoratore e al cittadino mettendo al centro un’idea di Paese fondata sull'uguaglianza nei diritti e nelle opportunità, e su una crescita sostenibile e felice. Occorre la consapevolezza che si debba rifuggire dalla semplificazione e dal populismo demagogico e partire dalla condizione lavorativa e sociale delle persone, aggredire le storture e i limiti storici che producono povertà e diseguaglianze, agendo ogni giorno sul particolare con una visione globale, contrastando sfruttamento, indifferenza, qualunquismo e corporativismo.  Il limite della nostra azione contrattuale categoriale è stata la mancanza di confederalità, senza la quale non puoi affrontare i nodi e i problemi in modo adeguato e con una visione generale, e rischi di scadere nel corporativismo, nel localismo, nel recinto aziendale e categoriale, spezzando il fronte solidale tra la classe lavoratrice. Così si rende difficile se non impossibile fare contrattazione inclusiva e sociale. Ma è altrettanto urgente rinnovare l’idea della confederalità e ripensare il modello organizzativo della confederazione, ridisegnare, rinnovare la struttura generale, in coerenza con le scelte della Conferenza d’organizzazione, oltre a riaprire un confronto senza rimozioni sul tesseramento e sulla sua qualità. Un tesseramento proveniente per oltre il 60% dai servizi mette in luce le difficoltà di insediamento e di proselitismo nei luoghi di lavoro, e può essere fattore di cambiamento della natura stessa della nostra organizzazione. La tessera non può essere vissuta come semplice, seppure importante, risorsa economica, ma come adesione ideale, di militanza e di partecipazione collettiva, di proselitismo. Anche sul tesseramento possiamo portare, come sinistra sindacale, un nostro fattivo e concreto contributo.

Infine credo che io debba parlare di noi, della sinistra sindacale e dell’esperienza che insieme stiamo vivendo; lo devo fare come referente nazionale di “Lavoro Società, per una CGIL unità e plurale” ma soprattutto come compagno che da sempre ha fatto parte della sinistra sindacale organizzata sul merito sindacale. Quando sono stato indicato dal nostro gruppo nazionale per ricoprire questo ruolo, cosa non facile a causa delle rotture politiche e personali provocate dalle scelte improprie di alcuni, mi sono sempre imposto di esercitarlo con responsabilità e con la convinzione che solo facendo vivere il collettivo avrebbe avuto senso e forza l’impegno assunto. Ognuno ha le proprie individuali responsabilità nell’ambito del ruolo che ricopre, ma occorre non dimenticare mai che sei espressione e parte di una storia collettiva. A livello nazionale come referente ho garantito sempre momenti di confronto collettivo nei quali assumere le decisioni, come fate voi attraverso l’azione preziosa di Andrea. Siete la categoria con la presenza organizzata più significativa di Lavoro Società.
Una categoria ricca di ricambio generazionale, per condizione o per natura con una forte propensione e cultura confederale. E siete un’esperienza tra le più significative, forse per la bravura di Andrea o più semplicemente perché siete voi delle brave e dei bravi delegati. Il Coordinamento nazionale ha approvato il documento che conoscete, “La CGIL del futuro”: quel documento è la base e l’orizzonte della nostra proposta politica e organizzativa aperta, per la costruzione della sinistra sindacale in una CGIL unità e plurale. Perché se vogliamo riunificare e ricostruire l’unità e l’identità del mondo del lavoro di oggi, dobbiamo farlo attraverso l’unità dell’organizzazione, del sindacato confederale. Non il sindacato unico ma unitario, perché da sempre l’unità è la forza che ti permette non solo di difenderti ma di fare conquiste. La CGIL deve essere unita, ma per storia e cultura può essere solo plurale, perché nella nostra organizzazione articolata, complessa e burocratica, la battaglia delle idee sul merito sindacale è e deve rimanere risorsa e valore. La CGIL migliora se stessa, si rinnova, si affina, si modifica grazie alla battaglia politica e culturale e alla presenza attiva delle delegate e dei delegati che ne sono la parte essenziale. Riconosco che essi vivono e crescono in una situazione politica e sociale differente rispetto al passato, quello mio e di tante e tanti altri, ma sarebbe una semplificazione e un errore pensare che i delegati di oggi siano meno bravi o meno preparati di quelli di ieri. Io penso che fare oggi il delegato sia più difficile di ieri e per questo si dovrebbe ringraziare e riconoscere chi, come voi, ha fatto una scelta coraggiosa e degna di grande apprezzamento. Allora come delegati irrompevamo nella discussione in CGIL con la carica del cambiamento, con la determinazione che ci veniva dal rapporto con i lavoratori, con gli iscritti che esprimevano bisogni e radicalità e chiedevano una diversa linea politica, di uscire dagli scambi concertativi. Erano anni caldi e difficili.  Le piazze, i vari movimenti dei consigli organizzati dalla sinistra sindacale obbligavano Segretari generali come Lama, Trentin, Cofferati al confronto serrato, alla critica e alla contestazione di piazza e nei congressi. La sinistra sindacale organizzata in CGIL è nata, cresciuta e si è trasformata sempre con l’apporto e il ruolo delle delegate e dei delegati. Ci siamo misurati e pesati in congressi nei quali ci presentavamo con documenti, mozioni, posizioni alternativi. Noi siamo anche oggi, come dicevo all’inizio, parte integrante di una storia collettiva, e sta a noi non disperderla ma rinnovarla e innovarla nella CGIL di oggi.

Quasi tutti i dirigenti della sinistra sindacale provenivano e provengono da un’esperienza sindacale nei luoghi di lavoro. È stata la nostra forza e il nostro portato nel fare lotta politica. Non voglio dire che un dirigente che ha fatto esperienza ed è cresciuto nel luogo di lavoro sia in assoluto migliore di chi è arrivato dalla scuola o dal partito, ma sono convinto, e lo abbiamo anche scritto, che la CGIL abbia bisogno di dirigenti che siano cresciuti nei luoghi di lavoro e a contatto con i lavoratori, perché hai un bagaglio in più, una maggiore sensibilità e conoscenza di ciò che fai e di quello che rappresenti, hai più anticorpi verso i rischi di burocratizzazione o di vivere il sindacato come un lavoro e non come una scelta valoriale di vita. La burocratizzazione è una piovra che ti avvolge, ti trasforma e poi ti stritola; l’antidoto non è l’uomo solo al comando, non è l’accentramento dei poteri e del controllo politico e organizzativo e neppure la destrutturazione dell’articolazione storica, categoriale e territoriale, di un’organizzazione complessa come la nostra. La CGIL deve giungere a un’autoriforma senza rinunciare alla sua natura e alla forza che le viene dalla sua complessità, non essendoci in campo grandi masse e movimenti che impongono i cambiamenti. Anche per questo, insisto, la presenza organizzata della sinistra sindacale non deve essere percepita, come capita ancora, come qualcosa di estraneo ma come risorsa che favorisce il confronto e l’articolazione necessari per fare reali autoriforme condivise. 

Questa è ancora una sfida da vincere.  La sburocratizzazione dell’organizzazione va di pari passo con la sua linea e le sue scelte. Le difficoltà che riscontriamo nel nostro tesseramento e nel nostro insediamento nei luoghi di lavoro, nell’esercitare la contrattazione sociale e inclusiva è, prima ancora che un problema organizzativo, un problema politico. Dobbiamo fare un salto di qualità nell’approccio, nel linguaggio, nella proposta, sapendo riunificare la condizione del lavoratore, con le sue aspettative e i suoi bisogni salariali, professionali, derivanti dallo sfruttamento, con quella di cittadino, con altrettanti bisogni sociali: istruzione, salute, servizi, sicurezza per sé e per i propri famigliari. Qui si gioca la partita vera: come essere e fare sindacato contemporaneamente come categoria e confederazione. Ovviamente gli strumenti, informativi, formativi, conoscitivi, insieme alle risorse, non sono secondari. Non esiste lo strumento buono o cattivo, vecchio o nuovo, antico o moderno, tutto dipende da dove e come lo usi, se è efficace o meno. Se tuttavia non hai un indirizzo univoco nel messaggio e se non hai la chiarezza degli obiettivi, nessuno strumento crea coscienza, condivisione, partecipazione e adesione all’organizzazione. Oggi la CGIL ha gli strumenti, le condizioni per andare in mare aperto, per essere rappresentativa del mondo del lavoro disarticolato e diviso e per riunificarlo? Penso che dovremmo discuterne riconoscendo limiti, ritardi e difficoltà. Il modello organizzativo attuale è un problema politico, e la messa in sicurezza dell’organizzazione va perseguita. Mentre anni e anni fa c’era un senso di appartenenza, di responsabilità condivisa e solidale, oggi c’è una balcanizzazione preoccupante.  Lo abbiamo visto, percepito quando abbiamo constatato la distanza tra il dire e il fare, tra quanto deciso nel Direttivo nazionale in merito a scelte coraggiose, a iniziative significative e positive e la non coerenza di pezzi e strutture dell’organizzazione. Questa distanza, questa dicotomia tra ciò che decidi, tra le scelte compiute al Congresso nazionale e ciò che si realizza concretamente potrebbe aumentare.

Se hai un documento di valore e hai fatto scelte strategiche coraggiose, devi avere anche un’organizzazione, una struttura, un gruppo dirigente in sintonia e all’altezza della sfida. Altrimenti, senza coerenza, il rischio è il vuoto, con la conseguente frustrazione che alimenta divisioni e disorganicità tra confederazione e categorie, tra regioni e territori. Le richieste che avete fatto di mettere insieme i delegati, scambiare le informazioni, fare cultura della riunificazione a partire dalla soggettività e dalle condizioni reali delle persone, di ripartire da ciò che c’è nei luoghi di lavoro, sono di buonsenso e di necessità e devono trovare risposte e concretizzarsi nell’organizzazione. Contemporaneamente voi, noi, tutti, dobbiamo chiedere, pretendere, ognuno dalla propria struttura, che si facciano le cose che vengono decise, di agire con coerenza, perché siamo una grande organizzazione e non una bocciofila. Abbiamo tentato di intraprendere una discussione e un confronto nelle conferenze d’organizzazione, e nell’ultima abbiamo portato il nostro corposo contributo scritto. Dall’ultima conferenza in particolare sono uscite scelte innovative, positive, che non sono mai state compiutamente applicate. Non basta l’immagine esterna, positiva e forte del tuo Segretario generale per far crescere e rivitalizzare l’organizzazione, perché la CGIL, non essendo un partito, non va a caccia di voti ma di adesioni, di iscritti, di militanti attivi e partecipi alla vita dell’organizzazione e ai suoi valori. 

Il Congresso nazionale l’abbiamo alle spalle, ma a mio avviso non si è concluso. O meglio, si è concluso unitariamente e positivamente con l’elezione del compagno Maurizio Landini, ma è stato un brutto congresso (come si è detto da più parti), perché è stato percepito, costruito come congresso di conta, di scontro tra burocrazie di potere che ha affossato e avvilito il merito sindacale e il dispiegarsi di un confronto ricco e propositivo. Tuttavia in quel congresso conclusosi unitariamente, ha vinto una linea che è espressione del Segretario generale. A quella linea, a quelle conclusioni congressuali abbiamo dato il nostro significativo contribuito. Le compagne, i compagni di “Lavoro Società - Per una Cgil unità e plurale” che erano nelle commissioni e in particolare in quella politica, dopo la prima stesura del documento congressuale, senza anima né contenuti chiari su questioni dirimenti, decisero di consegnare alla commissione politica ben ventiquattro emendamenti, venti dei quali nella sostanza sono stati acquisiti. Abbiamo condotto la nostra battaglia politica sul merito sindacale nella stesura definitiva della proposta del documento congressuale. Rivendichiamo il ruolo che abbiamo avuto in quella complicata fase di scontro congressuale, e il fatto di esserci sempre posti con lealtà nel serrato confronto e di aver deciso dove stare e con chi stare non con opportunismo ma sulla base delle nostre convinzioni politiche. Abbiamo come sempre dimostrato senso di appartenenza e di responsabilità, correttezza e lealtà, e confermato a chi ancora fa fatica a riconoscerci e ad accettarci, che non siamo una banda né una cordata di potere ma una risorsa, e parte integrante del pluralismo di questa organizzazione democratica. Non siamo e non vogliamo far parte di nessuna cordata, di nessuna area indefinita, di pluralismi di struttura o di carica sindacale perché non appartiene alla nostra storia di aggregazione, di area collettiva costituita sul merito, sui contenuti sindacali, nel rispetto della democrazia indicata dallo statuto.

Noi vogliamo essere parte della sinistra sindacale organizzata in una CGIL unita e plurale, capace di portare contributi, fare battaglie politiche e valoriali coerenti per contribuire a rafforzare, innovare la nostra CGIL.  Alle compagne, ai compagni che pur avendo fatto parte di una storia collettiva di sinistra sindacale hanno fatto scelte diverse dalle nostre schierandosi, nella dura battaglia congressuale, su un altro fronte, mi sento di dire che occorre aprire un confronto di merito sindacale di prospettiva sul che fare e per che cosa. Abbiamo scritto - e ne sono convinto - che possiamo anche declinare la conclusione di una fase, dell’esperienza collettiva importante che abbiamo saputo mantenere e rappresentare in questi anni con “Lavoro Società”. Sottolineo, come rimarcato anche da Andrea nella relazione: è un’esperienza che si avvia alla naturale conclusione, ma non è la fine della storia della sinistra sindacale, bensì l’inizio di un nuovo e innovato percorso, dentro però a quegli obiettivi, a quei valori e a quelle prospettive che abbiamo delineato nel documento “La CGIL del futuro”, aperto e rivolto al confronto, approvato nel Coordinamento nazionale di giugno. Noi siamo la parte organizzata, storicamente la più consolidata della sinistra sindacale, ma non siamo certamente né autosufficienti né adeguatamente rappresentativi. Da questa consapevolezza e con questa umiltà vogliamo ripartire, mettendoci in gioco, rendendoci disponibili dentro un percorso aperto e di pari dignità con tutti. Ci rivolgiamo a tutte le compagne, a tutti i compagni che pur con sensibilità e storie diverse ritengono utile, necessario per la stessa CGIL di oggi e di domani ricostruire, rinnovare o ripensare, oggi, un’aggregazione di sinistra sindacale organizzata nell’ambito delle regole statutarie.  Il programma è minimo, i valori sono gli stessi, il nostro riferimento è il documento congressuale, la nostra azione contrattuale è coerente con il merito sindacale e le scelte assunte, la nostra presenza è una risorsa e una ricchezza per il confronto democratico. Non un’area programmatica, oggi non ci sono le ragioni politiche riconoscendoci noi nel documento congressuale e nelle scelte compiute, ma un’aggregazione riconosciuta all’interno della maggioranza. Vogliamo essere un riferimento e un pluralismo di pensiero e di idee, con la possibilità di esercitare e rappresentare questo pluralismo nel rispetto delle regole e di quanto previsto nell’articolo 4. Non mi sfuggono le difficoltà, non rimuovo le rotture avvenute, il sostegno offerto da una parte della sinistra sindacale alla candidatura del compagno Colla, non so ancora per quali ragioni e sulla base di quali scelte, ma pur avendo un’attenzione verso il campo che ha sostenuto la candidatura a Segretario del compagno Landini, la sinistra sindacale deve ricostruirsi, con gli obiettivi e il senso di marcia che abbiamo indicato, con tutti coloro, organizzati o meno, che vogliono parteciparvi. Certo, dobbiamo rifuggire da un passato fallimentare, non possiamo pensare a un collage tra gruppi organizzati ma a mescolarci in una nuova, sperimentale e aperta aggregazione nella quale tutte e tutti siano protagonisti. C’è tutto questo da fare e, come abbiamo detto e come ha anche scritto saggiamente Andrea, saremo un luogo di aggregazione, di confronto, uno strumento e soprattutto vogliamo continuare ad essere una ricchezza per la nostra organizzazione, della quale, continuiamo ad esserne convinti, il pluralismo programmatico, delle idee, di pensiero è il collante. Siamo aperti al confronto con tutti e con tutte perché abbiamo deciso e indicato un percorso collettivo. Penso che agli inizi del prossimo anno svolgeremo un’Assemblea nazionale: lì verificheremo i risultati del nostro percorso, tireremo le nostre conclusioni e decideremo, come sempre insieme, come procedere, verificando chi si riconoscerà nel percorso e nella costituzione di un’aggregazione della sinistra sindacale che sarà sicuramente aperta e plurale ma fondata su basi chiare e qualificanti. Alla nostra Assemblea chiederemo al compagno Landini di partecipare. Per esperienza so che in CGIL puoi essere valorizzato e riconosciuto come dirigente sindacale anche se provieni da un’area, dalla sinistra sindacale organizzata. Ma ancora avviene che nei nostri confronti il riconoscimento dovuto sia sottoposto a giudizio discrezionale, a un’eccessiva misurazione delle qualità, e anche ad alcune discriminazioni rispetto alle scelte di campo. È il vizio mortale di chi ancora pensa di costruire il gruppo dirigente sulla fedeltà, sulla cooptazione e non sul merito e sul riconoscimento di lealtà e di appartenenza alla CGIL. E c’è ancora chi ha un senso proprietario dell’organizzazione ed esercita il potere di cooptazione, di “elargire” incarichi e cariche prescindendo dalla qualità e dall’esperienza sindacale. Così non si fa il bene e non si crea il futuro della CGIL. Noi nel collettivo ci siamo formati, siamo cresciuti, siamo divenuti risorsa nel fare sindacato, pluralismo organizzato di cui abbiamo chiesto il giusto riconoscimento anche nella costituzione dei gruppi dirigenti.

Abbiamo sempre scelto il merito e non la convenienza, abbiamo deciso dove stare nel congresso e cosa fare prescindendo dalla convenienza rispetto ai “posti”.
Semmai i patti politici e i riconoscimenti dovuti sono stati in parte disattesi e disconosciuti da qualcuno, così com’è stato rimosso il fatto che la nostra scelta congressuale ha contribuito in modo determinante in alcune realtà a far prevalere la parte che sosteneva la candidatura del compagno Landini. Noi da subito abbiamo scelto la politica e la prospettiva, in coerenza con le nostre idee e la nostra storia, al di là delle cordate o dei gruppi di potere che si stavano costituendo. Abbiamo scelto dove stare e con chi stare a prescindere, quando ancora non si era ufficialmente scelta la candidatura; lo abbiamo fatto senza rete di protezione, senza la sicurezza di vincere la partita, senza attendere la decisione ufficiale di Susanna Camusso e il successivo voto al Direttivo nazionale. Ci siamo presi tale responsabilità politica con coerenza, convinti che lo scontro in atto fosse nei fatti di prospettiva, di linea politica e sindacale. Come vedete il senso di responsabilità e di coerenza non ci mancano, ma non sempre sono riconosciuti e valorizzati.  La CGIL è una straordinaria organizzazione, la sua storia, la sua identità e i suoi valori vanno difesi e valorizzati, noi siamo risorsa e parte integrante di questa CGIL. 

Vogliamo e siamo tutti insieme la CGIL di oggi e di domani. Grazie per questi tre giorni, grazie per l’ascolto.

 

 

 


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