*Segretario CGIL Toscana
Vorrei fare una serie di riflessioni sul contesto nel quale svolgiamo la nostra discussione.
La CGIL negli anni Novanta è stata caratterizzata - di fatto - da una debolezza dentro una sconfitta storica. Il passaggio tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta è stato caratterizzato dall’egemonia di quello che è stato denominato “neoliberismo”.
Tengo a premettere una cosa. E’ stato detto, come fosse un dato di natura, che è in vigore una legislazione che colpisce il lavoro, ma questo non è frutto del caso, è frutto di un’offensiva politica all’interno della quale negli anni Novanta la maggior parte di noi è stata purtroppo sconfitta. La moderazione salariale per entrare in Europa nel 1992, la controriforma delle pensioni Dini del 1995 che colpì i lavoratori attivi.
Oggi abbiamo la riforma Fornero, ma la logica di passare a una sistema previdenziale legato non agli ultimi anni di retribuzione ma in base al totale dei contributi versati, aveva in sé quello che poi è accaduto.
Si dice che non vi è una legislazione di supporto alla forza nei posti di lavoro, eppure nel 1997 è stato emanato il pacchetto Treu. In quella stagione c’è stata una battaglia politica per l’egemonia all’interno della nostra organizzazione dove i pluralismi, non più di partito perché Trentin sciolse le componenti di partito, si caratterizzavano in base alla linea politica di condivisione o meno - o di contrasto o meno - per quanto riguarda la CGIL.
Negli anni Duemila non è stato così. Gli inizi degli anni Duemila ci hanno visto divisi fino a che, durante un congresso di Rimini, facemmo un accordo politico con Cofferati e iniziò una lunga stagione di tentativo di riconquista dei diritti (si veda ad esempio la difesa dell’art. 18).
Paradossalmente, la nostra esperienza collettiva come area di sinistra sindacale va in crisi nel punto più alto, quando una serie di questioni e di proposte diventa condivisione di tutta l’Organizzazione. Qualcuno ha detto che, una volta assolta una funzione storica, si può anche scomparire. E tutte le difficoltà che abbiamo avuto in realtà sono state dovute alla difficoltà di riposizionarci dentro la CGIL e le sue dinamiche in un campo affatto diverso. È sempre così quando c’è un passaggio di fase.
C’è uno spazio, una necessità anche oggi? In altre parole, come vivono e possono vivere le articolazioni e i pluralismi? Penso che sia meglio esplicitarli, che sia meglio che siano sulle culture politico sindacali. Io penso che non saranno sulla linea politica, perché per quanto ci riguarda essa è condivisa.
Ma ci sono le culture politiche o sindacali. Faccio una serie di esempi. Come mai la nostra Organizzazione ha messo così tanto tempo a prendere una posizione contro la risoluzione del Parlamento europeo che equipara comunismo e nazismo? È distrazione? È – come dire – sottovalutazione? Oppure c’è un tema di culture politico-sindacali?
È da ben tre Congressi che parliamo di ricomposizione orizzontale del mondo del lavoro e centralità delle Camere del Lavoro territoriali recuperando, in tal modo, una dimensione mutualistica tipica del sindacato ottocentesco; in altri termini, fra categorie verticali e Camere del Lavoro della nostra Organizzazione il pendolo dovrebbe battere dalla parte dell’orizzontalità. Allora perché in questi ultimi tre congressi invece di essere più orizzontali siamo sempre più verticali? Forse perché abbiamo una condivisione di mancato appassionamento della linea, oppure una modalità di ricostruzione dei gruppi dirigenti, oppure un nostro modo di essere che non coglie più quello che vogliamo rappresentare?
Continuo con modestia a pensare al marxismo come a un grande strumento di analisi, non di ciò che è soltanto fuori di noi ma anche di ciò che è dentro di noi (è l’essere sociale che determina la coscienza). Ritengo che, per come siamo fatti, siamo incapaci di intercettare il fatto che il mondo del lavoro è frantumato e stratificato. Quando nel 1955 la Fiom perse le elezioni per il rinnovo delle commissioni interne, abbiamo avuto una grande autoriforma dall’alto della nostra Organizzazione, (Di Vittorio dice “Anche se è colpa dei padroni”). Se avevamo anche soltanto l’un percento di responsabilità nostra, essa non era dal punto di vista soggettivo-moralistico: se ci deve essere una linea della CGIL che punti anche all’adesione rispetto al luogo di lavoro, l’Organizzazione era basata sulla centralizzazione delle politiche complessive, e questo era un errore. In altri termini, forse bisogna cambiare come siamo fatti, il perimetro delle categorie, i rapporti fra categorie e Camere del Lavoro. Se il 60-80% degli iscritti sono fatti dai servizi, quelle sono risorse che per esempio potrebbero andare alle Camere del Lavoro, non alle singole categorie che non si insediano nei posti di lavoro.
Rimandiamo sempre alle Conferenze di organizzazione la risoluzione. Durante l’ultimo congresso abbiamo preso la scelta di non mettere insieme linea politica e modello organizzativo senza pensare che può diventare rischioso la separazione e l’allontanamento di tali due elementi. E una linea politica che non si sostanzia in un modello organizzativo non può affermarsi.
Penso che questo sia un grande tema che abbiamo il dovere di affrontare perché bisogna reinsediarsi nei posti di lavoro.
Chiediamo che sia la politica a risolvere, attraverso la legislazione, una debolezza nei posti di lavoro. Chiediamo giustamente una legge di riordino della rappresentanza per evitare certe cose, ma credo che insieme a quella legge ci debba essere una battaglia per la riaffermazione vera della Carta dei Diritti. Senza la copertura dell’art. 18 come possono i delegati essere in grado di esercitare un potere dentro l’Organizzazione del lavoro?
Allora pensiamo, anche se non lo diciamo, che ci riconosciamo – ed è un bene – come struttura organizzata, ma ci manca un pezzo dentro i posti di lavoro. Quel passaggio è ineludibile perché se tu perdi e non affermi il tuo potere dentro i posti di lavoro, tu galleggerai sulle dinamiche politiche e istituzionali.
Con questa considerazione voglio dire che questo discorso merita una discussione ad ampio respiro, che i punti di vista di pensiero e di analisi espressi collettivamente costituiscono un valore, altrimenti ci sono altre modalità di riconoscimento. Abbiamo sempre pensato, detto e scritto che dobbiamo agire non singolarmente bensì collettivamente.
Come si articola un pluralismo fatto sulle culture politiche e sull’analisi dei processi, sulla coerenza fra le politiche e le pratiche in una dimensione di maggioranza?
Quando siamo passati dalle componenti di partito alle Aree programmatiche, queste ultime hanno funzionato su un differenziale di linea politica: la maggioranza propone, altri non si riconoscono in tale maggioranza, vanno tra i lavoratori sulla linea politica. Ma quando c’è una condivisione di massima sulla linea politica non c’è nel nostro sistema di stare insieme una modalità, perché anche ciò che si dovrebbe creare dentro una logica di maggioranza presupporrebbe una rottura sulla linea politica. Ma perché occorre rompere strumentalmente sulla linea quando si è d’accordo per avere un riconoscimento che altrimenti lo Statuto ed il regolamento non contemplano?
Una riflessione che consegno a tutta l’Organizzazione: un punto di vista sul mondo, un punto di vista organizzato. Penso che il marxismo in un’ottica classista sia fondamentale e decisiva. Come si ricompone il mondo del lavoro? Chi ha causato la sua scomposizione?
Quanto negli anni Settanta e Ottanta ci fu il processo del decentramento produttivo, esso non era mosso da dinamiche economiche, bensì da dinamiche politiche al fine di scomporre materialmente la concentrazione e la forza operaia dentro una fabbrica di tipo fordista. Il movimento operaio non aveva sempre considerato come positivi né una fabbrica di tipo fordista né il lavoro dequalificato. Quando dal Sud arrivò una gran massa di lavoratori dequalificati, i quadri e gli operai espressione dell’aristocrazia operaia torinese si chiesero: “E ora come si fa?”
Noi siamo dentro tante stratificazioni del mondo del lavoro: vi è chi condivide tutto il destino dell’impresa e vi è che condivide il lavoro schiavistico.
Questo è il cuore, il nocciolo per riposizionare la CGIL. Partendo dai luoghi della produzione e riproduzione sociale, dove li ricomponiamo? Sulle filiere del valore, su un territorio? Come si intrecciano filiera dal valore e territorio?
Su queste tematiche credo che sia necessario e utile intraprendere una discussione ampia. Mi rivolgo a tutta la CGIL. Io e altri abbiamo fatto una battaglia politica per avere una continuità rispetto a quello che abbiamo fatto e affinché ci fosse un’idea di autonomia della politica ma soprattutto un’idea che non fosse riproponibile un assetto neocorporativo delle relazioni industriali e politico-istituzionali.
Una fase diversa investe tutti, noi compresi. Noi vogliamo una CGIL – noi e tutti coloro che vorranno rincrociarsi senza steccati e preclusioni, in mare aperto, e trovarsi partendo da un punto di vista sul mondo – coerente sulla linea da perseguire, vogliamo categorie interpretative che non necessariamente sono le uniche all’interno del movimento operaio, vogliamo una CGIL che condivida, che costruisca, che consideri un valore pluralismi organizzati, che affronti le questioni come siamo fatti perché – badate – è singolare che non siano mai state sottoposte a verifica parole d’ordine che datano da tre congressi e che da tre congressi la pratica e le dinamiche siano andate in direzione opposta. Senza recinti e mentalità da combattenti e reduci, con idee passioni e pratiche da portare ad esempio e stimolo.
Lo scopo delle considerazioni sommarie esposte è quello di porre una riflessione a tutti noi su di noi perché, come diceva il compagno Di Vittorio, se abbiamo un problema nella formazione ed attuazione della linea, bisogna sempre domandarci non quello che dipende da ciò che è fuori di noi ma quello che dentro di noi possiamo fare.