Sono passati pochi mesi da quel 20 marzo 2020, quando tutti i giornali fecero vedere l’immagine che ha scosso profondamente tutti noi, una visione da teatro di guerra: una lunga carovana di mezzi militari che trasportavano i feretri dal cimitero di Bergamo verso i crematori di altre Regioni, poiché la camera mortuaria non era più in grado di accogliere le numerose vittime da Coronavirus. Quest’immagine non potrà e non dovrà essere dimenticata per due motivi molto semplici: il primo, per il rispetto delle vittime da Sars-Cov2 e il secondo perché non capiti mai più.
Oggi ci ritroviamo a gestire di nuovo una seconda ondata, ma a differenza della prima abbiamo una totale copertura dei dispositivi di protezione individuale (dpi) di base e un’alta tamponatura. Purtroppo però la parte che riguarda la terapia di base, fino ad arrivare a quella intensiva, è di nuovo in affanno.
Da dietro una scrivania sarebbe troppo superficiale e riduttivo fare un’analisi su quanto questa pandemia stia causando sia in termini di vite umane, sia da un punto di vista economico. Per la prima volta nella storia del nostro Paese, il Servizio Sanitario Nazionale si trova a gestire una pandemia con un impatto del genere, una cosa però è evidente: le scelte politiche, sia del passato che del presente, hanno messo al tappeto la nostra Sanità Pubblica.
Come ormai è noto, da più di un ventennio le politiche di governo e, purtroppo, anche della maggioranza delle opposizioni, hanno come repertorio il solito ritornello: “privatizziamo i servizi pubblici”.
Quante volte ci siamo sentiti dire che “il privato con la sua politica aziendale è in grado di far funzionare meglio la macchina del Pubblica Amministrazione”?
Peccato che i risultati ottenuti siano ben altri, tanto sotto l’aspetto della qualità dei servizi, quanto per tutta la forza lavoro impiegata. Quest’ultima in particolare, spesso costretta a condizioni economiche precarie, raggiungendo, troppo spesso, la soglia di povertà e noi come Filcams forse lo sappiamo più di tutti.
Ogni anno ci ritroviamo con cambi di appalto di servizi pubblici svenduti al “peggior offerente”, che si aggiudica gare scritte da chi quel servizio neanche lo conosce, peggiorando la qualità del lavoro di donne e uomini che si ritrovano a mandarne avanti la quasi totalità. Gli stessi servizi che anche in una pandemia sono stati gestiti con grande professionalità da lavoratori, nonostante alla prima ondata si siano ritrovati addirittura a compiere il proprio lavoro senza dpi e senza formazione adeguati: basti pensare ai servizi di pulizia e delle mense negli ospedali.
Questa pandemia ci ha sbattuto in faccia una cruda realtà: c’è bisogno di più Stato. Uno Stato che investa sui servizi e che li controlli direttamente, magari con delle società in house. Siamo quindi di fronte ad un bivio: vogliamo davvero lottare contro le esternalizzazioni dei servizi pubblici? Oppure continuare ogni anno a vedere i nostri lavoratori trattati come merce di scambio?
Va detto che da soli non possiamo farcela e ne abbiamo le prove. Ogni anno gli Enti Locali preparano gare e aggiudicano servizi ad aziende che se tutto va bene, pagano gli stipendi “regolarmente in ritardo”, quando non addirittura falliscono. Come categoria quindi ci ritroviamo a gestire situazioni sempre più critiche, riuscendo tuttavia nella maggior parte dei casi a ottenere l’applicazione adeguata di un CCNL di settore e il mantenimento della forza lavoro, in alcuni casi anche a buoni accordi di II livello, e tutto ciò certo è già tantissimo. Ma non basta e da soli non possiamo farcela.
Abbiamo bisogno di una CGIL collettiva, per ricomporre ciò che il mercato ha diviso e indebolito, che sia propensa ad istituire con meno burocrazia coordinamenti sia locali che nazionali e che sia più presente nei luoghi di lavoro. Sempre più spesso capita che le RSU e RSA dei vari servizi e delle varie categorie che lavorano nello stesso sito non si conoscano, anche per difetto di chi in quel sito dovrebbe agevolare l’unione e il confronto.
In questo periodo di crisi, ogni trasformazione in atto sta accelerando repentinamente stravolgendo il mondo che conosciamo. Trasformazioni e ricostruzioni che comportano un enorme dispiego di forze e di risorse e trasferimenti economici prima impensabili. Mentre si pensa all’impiego di così tante risorse, è ripreso più veemente di prima il coro orchestrato di odio, dileggio e rancore verso i lavoratori del pubblico e la contrapposizione artificiosa fra garantiti e precari. Se quest’onda non sarà arrestata, sarà solo questione di tempo e la figura del pubblico impiego in sempre più ambiti sparirà e chi pensava di non esserne coinvolto si ritroverà con la responsabilità di aver contribuito a questo continuo contrabbando di manodopera, dove lavoratrici e lavoratori si ritrovano senza lavoro, reddito e dignità.