Resistere per ricominciare: storie comuni di quarantena - di Maddalena Ruiu

Vorrei pensare di aver vissuto un incubo lungo 50 giorni, e al mio risveglio trovare tutto lì, immobile, come l’ ho lasciato ad inizio ottobre. Ma la realtà con la quale mi scontro quotidianamente, mi ricorda che niente sarà più come prima.
Quando vivi in un’isola, matura in te un’idea che ti fa credere che ciò che succede oltremare, da te non potrà mai arrivare: piangi a distanza, mentre in tv scorrono le immagini di Bergamo e rabbrividisci all’idea di chi, a un’ora di volo da te, vive il dolore straziante della perdita dei propri cari, senza avere la possibilità di poter dare loro un ultimo saluto. Dentro te, per una volta, benedici il disagio dell’insularità.

Intanto il tempo scorre, e tra un canto dal balcone e un DPCM, le misure vengono allentate, i contagi calano, le terapie intensive si svuotano, la voglia di libertà cresce in ciascuno di noi, con una forza quasi incontrollabile, così da azionare un meccanismo che rimuove dalla mente quanto accaduto nei mesi precedenti. Arriva l’estate, i dati sono sempre più confortanti, a luglio siamo un’isola Covid-free! Via le distanze, via le mascherine, via le disposizioni dei DPCM; spiagge, locali, discoteche, passeggiate notturne nelle località più blasonate aspettano solo noi. E’ la voglia di riprendere in mano la quotidianità a farla da padrona. Giorno dopo giorno, il timore viene sempre più ignorato, il lockdown un lontano ricordo.

Non è ancora settembre, che il numero dei contagi inizia a risalire. La cronaca delle ultime settimane avalla la tesi che, già dalla seconda metà di agosto, era ormai chiara a tutti: l’ordinanza che autorizzava la riapertura generalizzata e con pochi controlli di locali e discoteche è stata una scelta scellerata del Presidente e della maggioranza del Consiglio regionale.

Tutto ebbe inizio intorno alle 13.30 di domenica 4 ottobre, quando, mentre mi accingevo a pranzare con i miei genitori e i miei zii, mi resi conto di aver perso totalmente la percezione del gusto. È ormai risaputo che ageusia e anosmia sono tra i sintomi più frequenti dell’infezione Sars Cov-2; mia zia (che chiamerò Laura) è un’operatrice sanitaria in un ospedale pubblico e decise di sottoporsi a tampone prima di riprendere servizio. Lunedi 5 ottobre lo eseguì. Il 6 ebbe l’esito che mi tolse ogni ragionevole dubbio. Da quel preciso istante la mia odissea ebbe inizio; venne attivato il protocollo che prevedeva la tracciatura di tutti i contatti che Laura aveva avuto negli ultimi giorni: io, i miei genitori e i miei zii fummo sottoposti al regime di quarantena fiduciaria in attesa di esser sottoposti a tampone. A me e mio zio (che chiamerò Alessandro), lo fecero il 9; intanto Alessandro (sano senza alcuna patologia pregressa e neanche fumatore) iniziò a manifestare i problemi di respirazione e saturazione. Dopo 48 ore ricevemmo l’esito che confermò quanto ormai già sapevo; entrambi positivi. La situazione precipitò in men che non si dica. Zio Alessandro a stento respirava, invano cercammo di sollecitare medici e istituzioni, ma il nostro restò un grido di dolore inascoltato, in un continuo rimbalzarsi di responsabilità. Quando tutto sembrava volgere al peggio, arrivò un’ambulanza medicalizzata del 118, che dopo aver verificato i parametri, ne dispose il ricovero immediato con carattere d’urgenza; fu una lotta contro il tempo, occorreva trovare un posto libero negli ospedali ormai saturi: fortunatamente arrivò disponibilità dal SS Trinità di Cagliari distante oltre 150 km. Bisognava correre e sperare.

Nel frattempo, a meno di un centinaio di chilometri da me, i miei genitori (rientrati nella loro abitazione) attendono invano una chiamata per poter essere sottoposti a tampone. Mi sento impotente, so che non posso fare niente, devo solo attendere, passano i giorni, ma la chiamata non arriva, non resisto, mio padre soffre di un importante patologia; ho paura che possa improvvisamente star male; mi attacco al telefono, chiamo, nell’ordine, Usca, Ats, Prefettura, Sindaco, Carabinieri e Assessorato Regionale alla Sanità, chiedo disperatamente che qualcuno si rechi al loro domicilio per effettuare il tampone.

Arriva il turno della mia nonnina, improvvisamente inizia a stare male, ma, si sa, lei ha 91 anni, i medici di famiglia hanno il terrore di recarsi nei domicili dei pazienti Covid e/o sospetti tali; “è preferibile tenerla a casa”, “cosa si può fare d’altronde”… La selezione “naturale” delle specie è una norma non scritta; quindi o hai la forza di cavartela da solo oppure soccombi. Mia nonna è una donna di altri tempi e, sebbene abbia vissuto tra mille problemi e sofferenze, ne è uscita sempre vincitrice; così, come suo solito fare, anche questa volta ha cercato disperatamente di reagire, ma il virus era più forte di lei. La situazione si aggrava rapidamente, non si regge più in piedi, anche la saturazione cala vertiginosamente: ennesima chiamata al 118, questa volta arrivano e decidono di portarla via; ma ormai troppo tardi; sarà l’ultima volta che vedrà la sua casa. Viene ricoverata in terapia intensiva a Sassari e lì morirà, sola, in un grigio venerdì.

Intanto i miei genitori attendono ancora un tampone, devono comunque stare isolati, perché sottoposti a quarantena; neanche loro, come me, potranno accompagnare mia nonna nel suo ultimo viaggio. Vengono contattati dall’Usca, ben oltre due settimane dalla segnalazione: mio padre positivo, ha solo un po’ di tosse, ma fortunatamente si potrebbe collocare nella categoria degli asintomatici, mia madre, per buona sorte, negativa. Intanto, dopo oltre 20 giorni dal ricovero, arrivano le prime notizie confortanti su zio Alessandro: respira autonomamente ed è fuori pericolo.

Vedo uno spiraglio di luce in fondo al tunnel; provo rancore verso tanti; ma se dovessi puntare il dito contro qualcuno, lo farei contro chi, negli ultimi decenni, ha smantellato la sanità pubblica, destra o “sinistra” poco cambia. Lo stato di emergenza ha fatto emergere anni di politiche sanitarie di tagli scellerati al sistema sanitario pubblico in favore delle privatizzazioni con il depotenziamento di tutti i servizi.

Mi sono sentita privilegiata a vivere in una terra i cui abitanti hanno ancora intrinsechi nel loro dna i valori dell’aiuto concreto, della fratellanza, della solidarietà quella vera, che nasce da un codice non scritto ma vissuto, di accudire come un figlio il compaesano in difficoltà.
Concludo: il diritto alla salute è un diritto inviolabile (art 32 della Costituzione) ed è compito esclusivo dello Stato garantirlo e assicurare l’accesso per tutti alle cure mediche senza alcuna distinzione sociale ed economica.