Il Congresso della CGIL ha creato grandi aspettative. La linea decisa, la leadership che ne è emersa hanno segnato la volontà della CGIL di affrontare la crisi di rappresentatività, uscendo dalle secche di un “neocorporativismo” categoriale per affrontare il mare aperto della complessità del mondo del lavoro, facendo vivere ovunque nelle lotte, nelle rivendicazioni, nelle contrattazioni la Carta dei diritti.
Poi è arrivata la pandemia. La difficoltà di tradurre in iniziativa questo impegno, il venir meno del contatto quotidiano con milioni di lavoratori, l’urgenza di definire prima di tutto condizioni di sicurezza sul lavoro e la scelta di mettere la salute al primo posto. L’urgenza di assicurare un reddito a milioni di lavoratori sospesi dal lavoro.
Ne è nato, nostro malgrado, un logoramento che ha affievolito l’iniziativa e reso più debole la nostra voce.
Adesso parlano i documenti e le prese di posizioni unitarie, nei quali le nostre posizioni si diluiscono in quelle mediate con gli altri. L’unità ci rende più forti rispetto a padroni e governo, ma consolida nello stesso tempo ritualità del passato.
La necessità della patrimoniale, di un forte intervento pubblico in economia, di un massiccio piano di assunzioni nella sanità, nella scuola, nella pubblica amministrazione, per garantire un reddito a milioni di cittadini poveri (oltre 4 milioni e mezzo), di impedire le centinaia di migliaia di licenziamenti che si prospettano a fine blocco, di rinnovare i contratti di lavoro per favorire una ripresa della domanda interna, si “perdono” nella richiesta di detassazione degli aumenti salariali o nel ricorso al MES, senza neanche chiedere la rimessa in discussione dei vincoli europei.
Abbiamo preso al Congresso l’impegno a volare alto, ricordiamo di farlo “sempre acquistando dal lato mancino”.