Dal XVII congresso del PSI al V Congresso della CGdL
[La prima parte di questo articolo è stata pubblicata su “reds” n. 1 /2020]
A Livorno durante i lavori del XVII congresso del PSI fu Terracini a specificare che la rottura avrebbe riguardato il partito e non il sindacato. Evidente il collegamento con le tesi espresse al II congresso dell’Internazionale comunista. Nelle tesi sindacali redatte e presentate da Radek il 3 agosto 1920 si affermava che i comunisti non dovevano rimanere estranei all’attività sindacale, o formare sindacati di “sinistra”, non ricorrere alla scissione se non costretti, badando ad evitare ogni isolamento dalle masse operaie sindacalizzate “ il tenersi volontariamente lontani dal movimento sindacale, il tentare artificiosamente di creare sindacati particolari senza esservi costretti (…) rappresenta un gravissimo pericolo per il movimento comunista: il pericolo, cioè, di consegnare gli operai più avanzati e maggiormente provvisti di coscienza di classe nelle mani di capi opportunisti”. I comunisti in questa ottica dovevano contribuire all’unità tra sindacati e partito, costruendo all’interno delle organizzazioni sindacali e nei consigli di fabbrica “frazioni comuniste”. In Italia di conseguenza sin dalla costituzione del partito si ribadiva che la tattica non mirava a “spezzarne gli organismi ma a conquistarli”. Terracini, quindi, a Livorno dichiarava: “Divisione del partito ma unità del proletariato e (…) noi vi diciamo che uno dei nostri scopi sarà di creare l’unità sindacale in Italia”. Per l’attualizzazione di tale progetto venne costituito il Comitato Sindacale Comunista come minoranza organizzata dei comunisti italiani, diretto dall’operaio metallurgico milanese, Luigi Repossi, membro del comitato esecutivo del PCd’I.
La corrente sindacale rappresentava una minoranza che seppur presente in tutte le zone e categorie associate alla CGL, solo in pochissimi casi esercitava un’influenza tale da permettere la conquista di organi dirigenti. Ed è lo stesso Terracini, ma cinquantuno anni dopo la scissione di Livorno con una testimonianza su Rinascita, a ricordare che nella CGL il partito disponeva di un terzo degli iscritti che “seguivano la corrente comunista (…) per un partito nato in così poco tempo e avversato da tutte le parti, era una cosa notevole”. Nello specifico le Camere del Lavoro a maggioranza comunista erano quelle di Torino, Trieste, Livorno, Salerno, Taranto, ma è da notare che i maggiori consensi al PCd’I vennero dagli organismi orizzontali della Confederazione piuttosto che dalle strutture verticali (Federazioni di mestiere) espressione delle categorie più forti e saldamente controllate dai dirigenti sindacali di orientamento riformista. Le votazioni del V Congresso della CGL, tenutosi sempre a Livorno un mese dopo quello del partito, confermano questi dati, con 287.966 voti per la mozione comunista contro 556.608 della mozione socialista tra i delegati delle Camere del Lavoro e 130.459 contro 797.618 tra i delegati delle Federazioni. Più in generale la mozione conclusiva presentata per i comunisti da Tasca, Repossi e Misiano ottenne 432.558 contro il milione e 435.873 voti della mozione dei socialisti che approvava il complesso dell’opera svolta dalla Confederazione. Al termine del congresso i delegati comunisti si riunirono per definire le norme di azione e organizzazione per proseguire la battaglia interna e venne costituito il Comitato Centrale sindacale comunista che risultò composto da: Grandi, Flecchia, Schiavello, Milanesi, Repossi e Cecchi. Repossi, Milanese e Schiavello (quest’ultimo in seguito radiato dai quadri del partito per incoerenza) furono chiamati a costituire il Comitato esecutivo che stabilì la propria sede a Milano.
[Fine seconda parte. La terza e ultima verrà pubblicata sul prossimo numero di “reds”]