Il rapporto tra lo sport agonistico e dilettantesco, tra giocatori e pubblico, aiuta a capire la società statunitense
Lo sport è fenomeno globale e ogni paese ha il proprio preferito, la passione che tutti coinvolge. Negli Stati Uniti “l’America’s game” è il baseball, ma lo sport più seguito e popolare è il football. Uno sport brutale, ma sofisticato ed intellettuale nel suo sviluppo di gioco e nella realizzazione degli schemi.
Nel primo fine settimana di febbraio si gioca il Superbowl, la finale del campionato della NFL, la lega professionistica che ha compiuto 100 anni nel 2020. Finale che ha raccontato l’affascinante storia di Tom Brady, forse il più grande giocatore della storia che ha lasciato, a 43 anni, i vincenti New England Patriots per aiutare i piccoli Tampa Bay Buccaneers a crescere e vincere, in maniera clamorosa e inattesa, la finale e il campionato: il più grande dei giocatori, nella più piccola delle squadre, ancora vincente.
Negli Stati Uniti lo sport va interpretato in maniera diversa da come lo viviamo noi europei: lo sport è divertimento e spettacolo ma anche un formidabile veicolo di promozione sociale e personale. Soprattutto la comunità afroamericana ha fatto del gioco il modo per combattere la mancanza di prospettive che quartieri difficili e i non luoghi delle periferie urbane causano: il riscatto umano e sociale avviene sia con la carriera professionistica, che assicura denaro e gloria, che con le borse di studio universitarie, riservate agli atleti distintosi nei campionati scolastici e che permettono a molti giovani di studiare, e conseguire una laurea, in università dalle rette irraggiungibili.
Lo sviluppo del gioco è l’espressione ritualizzata della violenza della società americana. Un autore ha descritto la partita come “una guerra in cui non ci sono morti, ma la tua università contro un’altra, la tua città contro un’altra e il tuo stato contro un altro”. Le regole e la tattica richiamano la storia del paese e il suo drammatico sviluppo: il gioco consiste nel tentativo costante di conquistare il territorio della squadra avversaria, con lo stesso spirito aggressivo e metodico della conquista del west.
Nei suoi 100 anni di storia il football ha dato vita a molte storie affascinanti: una riguarda una comunità piccolissima, sede di una squadra di proprietà pubblica, capace di restare da sempre al vertice della lega, e che oppone il valore della tradizione e dell’appartenenza al semplice valore del denaro delle squadre più ricche delle grandi città: i Packers di Green Bay, uno dei team più vincenti e amati, con ben quattro finali vinte, di cui due consecutive, nel 1967 e 1968, con allenatore l’italiano Vince Lombardi, il più famoso allenatore della storia a cui è dedicato il trofeo del Superbowl: “Vince Lombardi Trophy”.
Esiste poi una squadra che ha raccontato la rivincita degli operai metallurgici di una delle città più operaie di tutti gli Stati Uniti che tra il 1975 e il 1980 vinsero ben 4 campionati: in quel sogno c’era anche l’orgoglio dell’intera classe lavoratrice locale. I Pittsburgh Steleers, che ci riportano anche alla rivalità più accesa dello sport americano, quella con i Baltimore Ravens (i corvi, nome scelto in onore di Edgar Allan Poe che a Baltimora visse a lungo). Baltimore, città che seppe sportivamente rinascere intorno alle maglie viola della sua nuova squadra dopo che la municipalità di Indianapolis, le scippò i Colts, la propria antica ed amatissima compagine: la notte del 29 marzo 1984 la ricordano tutti, a Baltimora, la fila dei camion, in fuga nella notte con i materiali della squadra… è una immagine indelebile nella memoria collettiva. Inconcepibile per noi europei.
Ma il football è anche lo sport in cui un grande numero di giocatori decise di inginocchiarsi al suono dell’inno per protestare contro le violenze della polizia sui loro fratelli di colore. Nello sport più amato e conservatore, i giocatori di colore, e non solo, nel 2017 decisero di alzare i loro pugni contro il sistema: a capo di questo movimento, tenacemente aggrappato alla propria battaglia, era Colin Kaepernick, ottimo quarterback (il regista) dei San Francisco 49ers. Nella NFL, che quest’anno ha deciso di sostenere con vivacità la campagna “Black Live Matters”, Colin non gioca più però. Nessuno lo ha più ritenuto degno di un contratto: perché puoi avere uno spirito popolare in America, ma bisogna ricordarsi che il popolo è anche razzista e ostile e, se il coraggioso giocatore ha ottenuto un cambio di rotta della politica della lega, lo ha pagato amaramente sulla propria carriera.
Ma il football è anche lo sport che assegna ferree regole finanziarie alle proprie squadre e ha escogitato due sistemi per rendere il campionato sempre avvincente e mai scontato: l’equa ripartizione fra tutti dei proventi commerciali e il sistema delle scelte. A fine stagione l’ultima squadra della classifica può scegliere, per prima, il miglior giovane proveniente dal campionato universitario: come se la peggior squadra della nostra serie A potesse acquisire i diritti di Cristiano Ronaldo. O ci si arricchisce vendendolo o si può creare, attorno a lui, una squadra vincente. L’esempio di equità organizzativa più sviluppata dello sport e di visione collettiva che supera gli interessi particolari.
Gli americani, più che i professionisti, però, amano le squadre universitarie. I college giocano un campionato molto spettacolare in cui l’identificazione con la comunità locale, con la storia delle persone, è molto forte e radicata. Comunità che si raduna la mattina della partita, quando nei parcheggi degli stadi si svolgono i tailgate party: le grigliate spontanee organizzate dai tifosi, il più delle volte persone appartenenti alla classe operaia, che in questa festa popolare e spontanea si ritrovano e dimenticano, per qualche ora, la fatica della propria vita.
Il football è uno sport affascinante che sintetizza in sé le mille facce e contraddizioni della società americana.
Voglio consigliare un libro che aiuta a conoscere e interpretare la società americana attraverso la storia di una squadra liceale di football e della piccola città texana che la ospita: “Friday Night Lights – una città, una squadra, un sogno.”, di H.G Bissinger. Un libro profondo sull’America profonda.