“Avevamo ragione noi!”.
“Ci hanno massacrato!”.
“Tutta colpa degli infiltrati!”.
Sono passati vent’anni dalle giornate del G8 di Genova. Se da un lato abbiamo assistito a un proliferare di ricostruzioni da parte dei media meanstram, molti dei quali all’epoca erano stati piuttosto “cauti” (per usare un eufemismo) nel prendere posizione nettamente durante il luglio 2001, dall’altro abbiamo assistito, da parte di tanti, troppi che di quel movimento potentissimo facevano parte, alla solita – e permettetemi, un po’ banale – litania infarcita di irrimediabile senso di sconfitta misto a rimpianto. Sì, perché il ricordo di Genova si è espresso in questi giorni lungo due tangenti entrambe limitante, parziali e, in fondo, a mio parere sbagliate.
Abbiamo l’insopportabile enfasi guerriera, quel reducismo autocompiaciuto e ultraminoritario che nemmeno si fosse stati i trecento spartani alle Termopili contro i Persiani. E c’è poi la più diffusa retorica del vittimismo e del martirio.
Sì, è vero, a Genova le abbiamo prese in tanti e tante. Ma non finisce lì!
Genova 2001, se si potesse riassumerla in una parola, è innanzitutto complessità. La complessità di un movimento vastissimo che metteva insieme anime estremamente diverse su posizioni comuni, nel rispetto delle proprie differenze, anche nelle modalità di “stare in piazza”.
Non è un caso che la giornata del 20 luglio sia stata organizzata in piazze tematiche. E non è un caso che il gigantesco apparato repressivo messo in campo in quei giorni sia andato a colpire proprio quella complessità dello stare insieme nella diversità, perché era proprio quella la forza e la minaccia rappresentata dal movimento No-Global. E le Forze dell’Ordine lo avevano capito perfettamente.
Ancora, non è per casualità che, al di là della retorica sui black bloc, venerdì 20 luglio tutte le piazze genovesi sono state sistematicamente caricate e non cogliere questo punto significa non fare i conti con la storia e con la sua complessità, appunto.
Ma non basta certo una parola per descrivere il G8 e, quindi, se dovessi trovarne un’altra userei la parola conflitto, non inteso come scontri di piazza, che pure ci furono e furono durissimi: conflitto inteso come scontro sociale. Uno scontro che rende viva una società e che, anche questo sembriamo essercelo dimenticato, permette la conquista dei diritti. Come diceva un vecchio saggio, infatti: “I diritti si conquistano a spinta”.
La terza parola che mi viene in mente è coraggio. Il coraggio delle decine di migliaia di persone che scesero a Genova sabato 21 luglio ben sapendo, o per lo meno intuendo, a cosa avrebbero potuto andare incontro dopo i fatti del giorno prima che avevano portato all’omicidio di Carlo Giuliani. Mamme, papà, ragazzi e ragazze giovanissime, nonni e nonne. Gente diversissima, ma mossa da un sentimento comune di rabbia e indignazione per quel corpo a terra circondato da robocop in divisa. E, forse, se quel sabato ci siamo evitati altri morti nonostante la mattanza lo dobbiamo a loro.
Ma parlo anche del coraggio del sindacato, innanzitutto della FIOM e poi della CGIL, che decise, senza balbettii e tentennamenti, di stare dalla parte giusta della storia mentre qualcuno la cui presenza forse avrebbe evitato il massacro pensò bene di ritirare la sua partecipazione all’ultimo secondo...
Quel gigantesco movimento non è stato sconfitto a Genova. Ne è uscito ferito, ma non battuto. Nessuno è tornato a casa! Già nei giorni successivi si riempivano nuovamente le piazze per opporsi e sbandate autoritarie e chiedere giustizia.
Quel movimento poderoso ha avuto sia un prima che un dopo. Di questo dopo fanno parte anche i milioni di persone scese in piazza contro la guerra e contro l’abolizione dell’articolo 18; una battaglia, quest’ultima, vinta all’epoca e persa più di dieci anni dopo quando al governo c’era la “sinistra”, e non Silvio Berlusconi.
Si dice spesso che: “Avevamo ragione noi”. Se ci confrontiamo con i sovranisti d’accatto che all’epoca tifavano liberismo e applaudivano al massacro e oggi, senza un barlume di dignità intellettuale, si fingono antiglobalisti, in effetti è vero. Ma se dobbiamo analizzare la questione in profondità, in realtà stavamo commettendo un grande, drammatico errore. Non avevamo capito, o meglio, molti e molte di noi non avevano capito che le vittime della globalizzazione neoliberista non sarebbero stati i poveri del Terzo Mondo, ma i lavoratori e le fasce deboli dell’Occidente capitalista. E così è stato. Usciamo da più di dieci anni di crisi ininterrotta e tutti ci ripetono che le diseguaglianze sono aumentate senza che nessuno faccia alcunché per ridurle.
Un altro insegnamento che abbiamo appreso in questi vent’anni è che, a differenza di quanto sosteneva Fukuyama, la storia non finisce. Mai. Dal 2001 abbiamo assistito a una serie di vicende che entreranno a pieno diritto nella storia con la S maiuscola: l’11 settembre, la “guerra globale al terrorismo”, la crisi finanziaria e del debito, la grande pandemia. E se la storia non finisce, anche le lotte non si arrestano. Disomogenee e scomposte, si palesano però in forme e con nomi diversi: da Fridays For Future e Non Una di Meno, da Black Lives Matter alle lotte sul lavoro, specie nella logistica dove lo sciopero Amazon entrerà negli annali.
Complessità, conflitto e coraggio, dunque. La complessità dell’oggi. Il conflitto come forma di azione a cui non rinunciare e anzi da rilanciare, specie in vista dell’autunno. E il coraggio. Il coraggio di non guardare solo all’oggi, ma a quello che potrà venire perché, come diceva Joe Strummer dei Clash: “Il futuro non è scritto”.