Gino Bartali e Fausto Coppi: l’epica in forma di romanzo popolare - di Gino Bruschi

Il ciclismo è come un grande romanzo popolare, soprattutto se lo riportiamo alla sua epoca d’oro. Quella a cavallo degli anni ’50, quando, il dopoguerra tornava a colorare le giornate degli italiani e due campioni le colorarono più di ogni altra cosa. La loro rivalità si è nutrita di leggenda, storie e molti luoghi comuni, alcuni completamente errati. Ma su un luogo comune di certo non si sbaglia: l’Italia era divisa in due. Il vecchio campione e il più giovane fenomeno. In realtà due atleti maturi che avevano regalato alla guerra una parte fondamentale della loro carriera. Per Bartali l’epoca potenzialmente migliore, per Coppi quella dell’affermazione definitiva.

Una rivalità che dimostra come il mito nello sport si nutra più di leggenda che di tecnica: sia chiaro i due sono stati due veri campioni. Molti esperti della storia di questo sport dicono che il più forte ciclista della storia sia stato Merckx. Ma il più grande è stato Coppi: affermando una supremazia non tecnica (impossibile raggiungere la grandezza del campione belga), ma storica e popolare. Come dire che non sono state le vittorie e la forza atletica a segnare la storia del ciclismo ma la capacità di incidere nella passione della gente e nel mito del racconto. E Bartali è stato il suo rivale, campione di uguale grandezza.

Innanzitutto una piccola premessa: l’epoca d’oro del ciclismo era tale per una ragione semplice e oggi sorprendente. La corsa allora non la si vedeva. La si sentiva raccontata dalla radio o letta dalle pagine dei giornali dell’epoca. Molti scrittori e giornalisti si sono formati, o hanno affermato la propria fama grazie alla narrazione del ciclismo: Orio Vergani, Vasco Pratolini, Gianni Brera e in tempi successivi Sergio Zavoli. La televisione invece di aumentare la popolarità dei ciclisti e dello sport della bicicletta ne decretò il declino a favore di altri sport: troppo lunghe e monotone le corse ciclistiche per essere apprezzate alla tv dal grande pubblico. Diverso era il racconto sul giornale o alla radio. Grazie a quei racconti i ciclisti apparivano come eroi veri. Attraversavano strade impervie, ancora in terra battuta, scalando vette che ai più dicevano poco o nulla ma diventavano luoghi da sogno. Il Pordoi, il passo Rolle. Il Gavia o lo Stelvio. Salite antiche che non hanno perso il loro fascino e su cui Coppi e Bartali condussero le loro sfide.

La loro era stata anche una battaglia ideologica. Bartali, cattolico e devoto. Coppi dalla vita avventurosa e, per i canoni di allora, dissoluta. Ma, e qua il primo mito da sfatare: Coppi non era paladino della sinistra. Anche lui come Bartali votava la D.C. Solo le sue scelte sentimentali lo portarono ad allontanarsi dal mondo cattolico a cui invece il suo rivale guardava con coerenza fortissima.

Una cosa che deve essere anche conosciuta e che i due in realtà vivevano una rivalità fortissima sulla strada ma una stima altrettanto salda a piedi. Bartali, dopo la scomparsa di Coppi, si sentì sempre orfano dell’uomo che ne aveva ingrandito i meriti e la leggenda.
Per approfondire il rapporto, molto complesso tra i due e utile osservare come iniziò la loro epopea e come si interruppe.

Coppi vinse il suo primo giro d’Italia correndo in squadra con Bartali, nella Legnano nel 1940, dove era arrivato come giovane e promettente gregario del già affermatissimo Bartali. Nella tappa sull’Abetone, una giornata storta di Bartali impose alla squadra di puntare sul giovane campione che da quel giorno impose la propria legge. Ma non fu un passaggio indolore quel giorno sulla vetta dell’Appenino tosco-emiliano. Il campione, più vecchio di cinque anni, forse comprese il pericolo al proprio dominio che quel giovane avrebbe creato. La loro rivalità ebbe inizio come compagni di squadra.

Coppi morì il 2 gennaio del 1960. Da stipendiato di Bartali. Infatti al termine della propria carriera, quando le gambe non recuperavano più l’antico smalto ma il nome restava quello del mito, una operazione commerciale e sportiva, dai più giudicata patetica, portò a trovare l’accordo tra i due uomini per essere uno direttore sportivo e l’altro atleta della Sanpellegrino. Squadra per cui Coppi gareggiò le sue ultime corse, prima di morire a seguito della banale infezione da malaria contratta in Africa. Il loro rapporto non fu mai banale, dal primo all’ultimo giorno.

La loro rivalità segna ancora oggi l’immagine di una Italia e di un’epoca.


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