Niente passaporto o carta d’identità valida per l’espatrio, divieto di uscire di casa dalle 21 fino al mattino alle 7, di partecipare a manifestazioni pubbliche, di incontrare un numero ristretto di persone per volta, di uscire dal comune di residenza, obbligo di comunicazione dei propri spostamenti alla polizia. Non sono gli aspetti di una pena derivata da una condanna: la pena non c’è. Perché anche il reato ancora non c’è. Ma, questa la motivazione, potrebbe esserci in futuro. Sono le misure di sicurezza che si applicano a chi viene riconosciuto socialmente pericoloso, talvolta utilizzate per chi ha commesso reati e magari trascorso un po’ di tempo in cella e non considerato ancora in grado di riprendere il suo posto nel consesso civile. Ma, in questo caso, sono quelle con le quali dovrà convivere per due anni Edgarda “Eddi” Marcucci, la torinese di 27 anni, militante no-Tav ma che soprattutto ha combattuto i tagliagole dell’Isis arruolandosi nelle Ypj, le unità di difesa femminile del Rojava curdo. La sua colpa, secondo i giudici di primo grado e della Corte d’appello di Torino che ne ha confermato la decisione, è quella di avere “una spiccata inclinazione alla violenza e all’uso delle armi”, dopo averle impugnate per combattere il califfato nero a fianco delle milizie curde in una zona nella quale si sperimenta anche una inedita forma di organizzazione sociale dal basso. Esattamente ciò che hanno fatto alcuni suoi compagni italiani, ai quali non è stata applicata però alcuna misura simile. Ed è esattamente ciò che ha fatto Lorenzo “Orso” Orsetti, il giovane fiorentino ucciso in combattimento nel villaggio siriano di Al-Baghuz Fawqani nel marzo del 2019 e oggi giustamente onorato in patria. Senza corre il rischio di una forzatura non è dunque fuori luogo pensare che la colpa accessoria di Eddi Marcucci sia quella di essere tornata viva in Italia. Così la sua nuova condizione di sorvegliata speciale è dovuta non solo e non tanto a ciò che ha fatto in Rojava ma soprattutto a ciò che potrebbe – il condizionale è assolutamente d’obbligo - fare nel suo Paese. Se Eddi Marcucci non avesse partecipato alla resistenza curda nessuna restrizione del genere poteva essere per lei decisa fino a quando, e se, quell’ipotetico e futuribile reato lo avesse concretamente compiuto. Non è un sofisma. E’ uno dei paradossi di un istituto giuridico complesso e contrastato e cioè l’articolo 203 del codice penale, le cui norme si applicano appunto a coloro i quali sono considerati motivo di pericolosità sociale, giudicati capaci – anche solo teoricamente e sulla base del profilo che emerge dai rapporti investigativi - di compiere un reato. Il senso dell’articolo 203 deriva dell’armamentario giuridico ereditato dal ventennio fascista e la norma si applica anche alle persone non imputabili e non punibili. In questo caso è per la prima volta usato per chi ha combattuto all’estero, trattato alla stregua dei foreign fighters espatriati per arruolarsi nei ranghi dell’Isis, cioè di un esercito del terrore contro il quale tutte le democrazie degne di tale nome hanno ingaggiato una lotta senza quartiere. Una lotta alla quale, con una scelta magari discutibile ma conseguente, Eddi Marcucci e Lorenzo Orsetti che in Rojava aveva preso il nome di Tekoser, hanno partecipato a rischio della propria vita o pagando con essa. Non c’è da sorprendersi se i giudici della Corte d’appello di Torino hanno usato tutti i 40 giorni che si erano riservati per pronunciarsi, dovendo scegliere quale dei due sentieri stretti intraprendere. Avrebbero potuto, accogliendo il ricorso contro la decisione dei giudici di primo grado, offrire una lettura diversa dello stesso concetto di pericolosità sociale e, al tempo stesso, accendere un faro sui tanti profili di opinabilità di una norma che di fatto punisce, con la motivazione di prevenirlo, un reato prima che esso venga consumato e senza sapere se verrà davvero compiuto da Eddi Marcucci, con un’autentica torsione del diritto. Avrebbero probabilmente potuto contribuire, anche solo oggettivamente, a fare in modo che il legislatore rivedesse in modo più coerente con l’impianto giuridico italiano quella norma che limita in modo radicale le libertà personali sulla base della discrezionalità. E forse anche a rendere più chiaro ai cittadini, sebbene questo non sia un compito proprio dell’amministrazione della giustizia, che c’è una qualche differenza tra chi si arma in un altro paese per difendere libertà e diritti civili e chi lo fa per sgozzare l’una e gli altri. Sarebbe stata probabilmente una sentenza che avrebbe provocato scandalo. E con esso una salutare e diffusa discussione su un articolo del codice penale che, in frangenti simili, sembrava sepolta dal tempo e dalla storia ed il cui uso può apertamente confliggere con la Costituzione repubblicana. I giudici hanno scelto una strada diversa. Ma non è detto che questa non susciti altrettante riflessioni, polemiche e magari battaglie giuridiche, civili e politiche.
*Stefano Fabbri, giornalista, fondatore di “controradio” è stato per dieci anni caporedattore vicario della Redazione Cronache Italiane dell’ANSA a Roma, occupandosi anche, per conto della direzione dell’Agenzia, delle produzioni giornalistiche regionali. Per circa un anno è stato alla guida della redazione ANSA per il Piemonte e, per un più lungo periodo, della redazione dell’Agenzia per la Toscana. Oggi suoi contributi sono pubblicati da quotidiani, radio, tv e siti web e ds (e da oggi anche da “reds”!)