Come si cambia per non morire, canta la bravissima Fiorella Mannoia. Mentre la interpretava per la prima volta, l’artista non pensava a Matteo Renzi, ma certo è che, alla luce dell’attuale quadro politico, le liriche sembrano scritte per il senatore di Scandicci. Non passa giorno senza che il Renzi pensiero compaia sui media di cielo, di terra e di mare. Un’apparizione in tv nei talk show politici, un’intervista sui quotidiani, un’intervento radiofonico, e poi il macrocosmo dei social: lui è ovunque, seguendo gli insegnamenti dell’antico maestro della comunicazione Silvio Berlusconi. A differenza del Cavaliere dei tempi d’oro, però, a tanti sforzi non corrispondono adeguati consensi elettorali. I sondaggi, impietosi, assegnano invariabilmente a Italia Viva un modesto 3% che non asseconda certo i desideri del leader. E che, a seconda della legge elettorale - di cui si continua sotto traccia a discutere nei palazzi della politica - offre al Matteo toscano la poco invidiabile scelta se essere vassallo di Zingaretti e Di Maio, oppure condannarsi all’irrilevanza politica.
Che fare? La strada scelta, oggettivamente l’unica possibile, è quella di farsi notare, avere su di sé la luce dei riflettori, nel solco della massima di Oscar Wilde secondo cui bene o male basta che se ne parli. Per un mese Renzi ha battuto i pugni sul tavolo, minacciato il ritiro delle sue due ministre (Bellanova, Bonetti) dalla maggioranza, ventilato sfracelli.
Tutto allo scopo di aver maggior voce in capitolo sulla gestione dei 209miliardi del Recovery fund, detto anche Next generation Ue. Poi sono arrivati i vaccini anti Covid, un Vday che non è quello di Beppe Grillo, e che è e sarà la notizia del giorno per i mesi a venire. A questo punto l’idea di una crisi di governo o di un rimpasto diventa pericolosa per chi la propone. Il rischio è quello di vedersi recapitare dalla Befana un grosso sacco di carbone. Di fronte alla prospettiva dell’ennesimo smacco, non resta che il ricorso ai bizantinismi cari alla politica italiana.
Esclusa la sostituzione di Giuseppe Conte a palazzo Chigi, allontanata la possibilità di un Conte-ter, non resta che l’ardita formula del Conte 2 bis. Tacitando l’ex boy-scout di Rignano sull’Arno con qualche micro aggiustamento nelle ramificazioni dell’esecutivo, e la promessa che sì, anche Renzi avrà voce in capitolo, tutto resterebbe sostanzialmente come è.
Che nulla cambi insomma, perché nulla può essere cambiato. Visto che la maggioranza ha numeri in Parlamento non troppo rassicuranti, e soprattutto che gli umori del paese, a leggere i sondaggi settimanali, confermano la forza dei due principali partiti dell’opposizione. Con i cali della Lega salviniana equilibrati dagli aumenti dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
Messi insieme, i due schieramenti dichiaratamente di opposizione navigano stabilmente sopra il 40%. In questo contesto, Renzi non può permettersi di pigiare il pedale dell’acceleratore di una crisi di governo. Rischierebbe di scottarsi le dita con un cerino incandescente, e il suo piccolo elettorato potrebbe alla fine decidere che in fondo è meglio l’originale della copia. Trasferendo i suoi voti nella cassaforte, oggi esangue ma ancora ‘rassicurante’, dell’anziano ma pur sempre ricchissimo Berlusconi.
A caval donato, anche se non è un gesto elegante, Renzi farebbe bene a guardare in bocca