Il film di Stefano Morini tratto dall’omonimo romanzo di Edoardo Albinati
Centosei minuti duri, molto duri, raccontano il dietro le quinte del massacro del Circeo, lo stupro di Daniela Colasanti e di Rosaria Lopez. Rosaria morì per le sevizie dei suoi aguzzini, Daniela ne fu segnata a vita.
Era il 1975, tra Roma, luogo di vita dei protagonisti, e il mare del Circeo, il luogo della violenza e del massacro. Il film diretto da Stefano Mordini trae spunto dall’omonimo romanzo, vincitore del Premio Strega, di Edoardo Albinati.
Assassini tre giovani studenti di una scuola cattolica, un liceo per soli ragazzi di buona famiglia. Inutile nascondere che il film nella parte in cui indugia sul delitto fa male, decisamente male. Sarà per le capacità del regista e degli attori o per la consapevolezza che fu storia vera in sala la commozione assale gli spettatori e angoscia le spettatrici. La centralità nel racconto è la causa, psicologica ma pure politica, della vicenda: la scuola cattolica romana “San Leone Magno”. Una intestazione, quella della scuola, prodromica per un cattolicesimo oscurantista, reazionario, malato nel racconto del film.
Sono i giovani di una Roma bene, bene ma di mezzo tra il terrorismo nero del sottoproletariato fascista e i doppiopetti che cadono sempre in piedi della aristocrazia nera. Borghesia. Borghesia intrisa di valori reazionari, sessisti, classisti, criminali e violenti. Borghesia annoiata dalla vita e indifferente. Gli indifferenti già raccontati da Moravia e già odiati da Gramsci. Lo spaccato delle case borghesi, della ipocrisia unica difesa alle contraddizioni della società in assenza di ogni istanza collettiva di cambiamento, è ancor più triste della scuola dove, sotto la forma del cattolicesimo, permane una evidente irrisolutezza di quel sistema di pensiero.
La scelta degli autori è quella di confinare nell’oppressione sessuofobica di questa educazione, scolastica e familiare, la causa del male. Dell’uomo che fa il male per poter permettere il dispiegarsi del bene. I riferimenti espliciti al fascismo, al nazismo, sembrano gettati a freddo: l’architettura della piscina dove tra le colonne i giovani studenti maschi fanno esercizio fisico, un tema agiografico dedicato a Hitler appallottolato dall’insegnante accusato di socialismo, un compagno di classe che poco dopo esploderà nel preparare una bomba. Solo che, appunto, non esiste alcun bisogno di dire oltre.
Il fascismo romano degli anni Settanta era, per i fascisti di mezzo, quel milieu culturale tra cattolicesimo oppressivo, famiglie borghesi e nonsenso del vivere in un mondo stritolato tra la solidità del passato e la liquefazione di un domani ancora ignoto. Non serve quindi altro richiamo a prescindere dalla volontà degli autori, quella era - in sé e di per sé - una delle forme del fascismo a Roma alla metà degli anni ’70. Un fascismo che ha fatto la storia e la cronaca, nera, purtroppo.
Dal film manca il popolo, il movimento operaio, quello studentesco, quello femminista che seppe leggere immediatamente la matrice fascista del massacro del Circeo e seppe proporla allora all’attualità politica. Manca perché, appunto, seppe trasformare le contraddizioni della società in lotta e desiderio di riscatto invece che in oppressione e morte. Appaiono solo poche figure servili, domestiche, cameriere. Popolo subordinato, così come subordinate sono le donne.
Il film termina ricordandoci la sorte dei tre assassini, tutti e tre condannati all’ergastolo. Andrea Ghira, che mai scontò un giorno di pena per questo delitto, morto di overdose dopo una vita trascorsa nella legione straniera spagnola; Gianni Guido, rimesso in libertà nel 2009 ma protagonista di una evasione incompiuta; Angelo Izzo, autore di una nuova strage nel 2005 durante la semilibertà.