Gli articoli 133 e seguenti dell’attuale CCNL hanno una lunga storia, che affonda le sue origini alla metà degli anni ’80 del secolo scorso, e che ha i suoi precedenti nella stagione della contrattazione integrativa dei “grandi gruppi” di allora (La Rinascente, Sgs, Standa, Coin, Pam, e il movimento cooperativo), svoltasi attorno agli anni 1984-85. Il fulcro attorno al quale si svilupparono le intese fu l’organizzazione del lavoro, e il tema degli organici e dell’orario ne furono i cardini. Si deve ricordare che quello che oggi appare scontato – la prestazione su nastri orari continuati – era allora inesistente per la quasi totalità dei lavoratori/lavoratrici full time, e che il part-time – pur presente già in modo significativo – non aveva la consistenza e la pluralità di orari odierne.
Di qui la spinta dei lavoratori/lavoratrici ad un intervento sugli orari che rappresentasse un concreto avanzamento della loro condizione materiale, ma anche un confronto molto aspro con le direzioni aziendali su un punto di principio: avere cioè il sindacato diritto o meno a contrattare l’organizzazione del lavoro. E articolò lo stesso fronte datoriale, con l’impresa a Partecipazione statale (l’SGS del Gruppo Sme – Iri) che si caratterizzò per il suo atteggiamento di maggiore apertura rispetto alle altre imprese, che pure poi si adeguarono. Gli accordi introdussero “in via sperimentale” l’organizzazione del lavoro su (tre) turni orari continuati, e anche – anticipando quanto sarà poi normato dal successivo CCNL (1986) – forme di riduzione d’orario a 38 ore. Lo si fece utilizzando 56 ore di permessi derivanti dalle festività soppresse (allora erano 5, poi passate a 4 con il ripristino dell’Epifania), aggiungendo ulteriori 16 ore già previste dal CCNL del 1981 ed ulteriori 24 a carico dell’impresa, raggiungendo così la cifra di 96 ore annue che equivalevano ad una riduzione di due ore per le 48 settimane di prestazione.
La spinta impressa dalla contrattazione integrativa sfociò poi nel rinnovo del CCNL l’anno successivo, dove si consolidò una complessa architettura – sostanzialmente tuttora vigente – di pluralità di modelli orari cui le imprese possono attingere, evitando l’unilateralità che fino ad allora aveva contraddistinto il loro operare. La pluralità, tenendo conto dell’estrema articolazione delle imprese che da sempre e ancora più oggi caratterizza la sfera di applicazione del CCNL del Terziario, della distribuzione e dei servizi, parte dalla fissazione dell’orario “contrattuale” a 40 ore settimanali, cui corrisponde l’intero “pacchetto” dei permessi da fruirsi a gruppi di 4 o 8 ore previa intesa tra il lavoratore e l’impresa. A questo “modello base” se ne affiancano altri, previsti espressamente per particolari tipologie d’impresa (grande distribuzione, discounts, ipermercati, ecc.) in cui la riduzione a 38 ore è raggiunta attraverso la fruizione di parte (72) delle 96 ore di permesso, residuando così 24 a disposizione del lavoratore. E’ importante sottolineare un fatto, abitualmente trascurato: nonostante l’orario contrattuale sia confermato a 40 ore, il divisore orario (su cui si calcolano ad es. le maggiorazioni) è fissato a 168, ossia all’equivalente orario di 38 ore (infatti a 40 ore corrisponde il divisore 173)! Quindi il CCNL del terziario implicitamente riconosce a tutti i lavoratori – non solo a quelli con orario effettivo di 38 ore – l’orario ridotto.
In questa ricostruzione non ho fin qui introdotto un tema – quello del part-time – che complica notevolmente il già complesso quadro. Perché il rapporto a part-time è un “contratto individuale” che può essere modificato (nel nostro ragionamento “immesso nella turnazione degli orari”) solo se ciò è frutto del consenso “delle parti”. A quei tempi non c’erano (ancora) contratti a part-time con svolgimento della prestazione anche nella domenica, ma c’erano certamente contratti con orari definiti (ad es. 8-12; o 16-20): potevano questi lavoratori (queste lavoratrici) essere “immesse nei turni” con un accordo sindacale, a prescindere dal consenso del lavoratore/lavoratrice? La risposta fu sempre negativa, fino alla (storica) sentenza della Corte Costituzionale n°210/92 che chiarì come l’orario del part-time poteva essere reso modificabile solo riconoscendo al lavoratore (lavoratrice) il “risarcimento” per l’impossibilità di cercarsi e trovare un altro rapporto di lavoro data la possibile “chiamata al lavoro” da parte dell’impresa. E nacquero così le “clausole flessibili ed elastiche” su cui tanto si battagliò negli anni successivi, ma di questo si potrà parlare in un altro momento.
Oggi, a conclusione di questo breve “sunto delle puntate precedenti”, il tema dell’orario, e della sua riduzione, si presenta con ulteriori complessità, sia a fronte della pluralità di rapporti presenti nei luoghi di lavoro, con interessi spesso non omogenei tra lavoratori con diverse tipologie d’impiego, sia anche perché l’intensificazione dei ritmi e carichi di lavoro, anche dovuta all’introduzione di tecnologie sempre più in grado di saturare i tempi della prestazione, rendono ancora più appetibili i “gradi di libertà” dall’organizzazione del lavoro (cioè i permessi), anche a discapito della funzione fin qui svolta di parziale strumento per la riduzione d’orario. Il tema di una strategia contrattuale fondata sull’inclusione, su cui la Cgil ha fondato la sua elaborazione in questi anni, ha qui il suo banco di prova, dovendo un obiettivo storico (la riduzione d’orario), in presenza di situazioni così diverse rispetto al passato.