Chi lascia la via vecchia per la nuova sa quel che perde, non sa quel che trova. Il proverbio calza come un guanto sullo stato d’animo degli italiani/e all’indomani della rielezione di Sergio Mattarella. Nell’immaginario collettivo solo l’ottantenne politico palermitano, uno della vecchia scuola, democristiano di lungo corso può vigilare sul paese dall’alto del Colle. O meglio continuare ad essere arbitro, Costituzione alla mano, di una politica che si è dimostrata incapace di trovare l’accordo su un nome alternativo. Da Mattarella a Mattarella molti nomi sono passati sotto il ponte dei grandi elettori: da Elisabetta Casellati, seconda carica dello Stato, a Elisabetta Belloni, direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, passando per l’anziano costituzionalista Sabino Cassese, i sempreverdi Giuliano Amato e Pierferdinando Casini, tutti bruciati sul falò delle vanità dei partiti politici. Alla fine del solito psicodramma andato in scena a Montecitorio, sull’onda di una richiesta crescente che saliva dagli stessi parlamentari, i leader politici, i segretari di partito, Pd e Lega, Movimento 5 stelle, Forza Italia e Leu hanno deposto (metaforicamente) le armi e hanno richiamato in servizio il presidente uscente. Una dose booster per protegge il governo di Mario Draghi, che altrimenti rischiava di chiudere ingloriosamente la sua parabola, contagiato dalle aspirazioni personali del ‘migliore dei migliori’. Invece sì è rimasti così, nulla è cambiato perché nulla doveva cambiare.
Come alla fine di qualsiasi elezione, tutti dicono di aver contribuito alla vittoria finale. Ma non è vero. Tutti tranne Giorgia Meloni, la sorella d’Italia che non ha votato Mattarella e se ne vanta. Lei voleva un uomo di destra al Quirinale, l’aveva detto a chiare lettere agli ormai storici alleati, la Forza Italia di un Silvio Berlusconi sempre più anziano e acciaccato, e la Lega di un Matteo Salvini sempre più in confusione. Il risultato è stato ancora una volta negativo, e Meloni se l’è legata al dito, accusando i forzisti di aver votato prima Casini e poi Mattarella - ah, il fascino del Partito popolare europeo - e i leghisti di averla pugnalata alle spalle votando anch’essi il presidente uscente. Se piove di quel che tuona, i prossimi mesi saranno molto complicati per le due forze di destra della politica italiana. Meno complicati per una Forza Italia che si sta abituando alla realtà di un leader che ha esaurito la sua parabola politica. E che ormai guarda con occhi sempre più interessati al progetto di grande Centro prefigurato da mesi da Matteo Renzi. Un’idea che non dovrebbe dispiacere né a Mattarella né a Draghi, in quanto fisiologica stabilizzatrice del sempre effervescente sistema politico italiano. Con queste carte in tavola, la partita delle prossime elezioni politiche si fa intrigante. Perché anche il cosiddetto centrosinistra nella sua ultima versione Pd-M5S-Leu, che aveva sostenuto il secondo governo di Giuseppe Conte, si trova a fare i conti con sviluppi non del tutto previsti. Il Pd, non dimentichiamolo, è nato per posizionarsi al centro dello scacchiere politico. Ora si trova un potenziale concorrente. Soprattutto perché il sogno del segretario dem Enrico Letta di un campo largo progressista non è quello dei pentastellati, ormai avvolti da un cupio dissolvi in cui progetti politici e personali hanno invariabilmente la meglio sul resto. Con lo scontro aperto, il triello fra Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Beppe Grillo che minaccia di allontanare una base elettorale quantomeno ondivaga dal confermare la fiducia al movimento. Una situazione che non lascia ben sperare, vista anche la strategia pentastellata di abbracciare senza riserve la riduzione dei parlamentari nella prossima legislatura.
Gli spifferi dei palazzi della politica raccontano che Mario Draghi, scottato dal mancato gradimento sulla sua augusta persona per la sostituzione di Mattarella, ora minaccia di tenere tutti a pane ed acqua, e di esercitare le funzioni dell’esecutivo senza grandi mediazioni. Dalla sua avrà sicuramente l’appoggio del Quirinale, al tempo stesso tenere insieme una compagine governativa con Leu, Pd, Forza Italia, Italia Viva e soprattutto Lega non sarà per niente facile, a soli dodici mesi dalle elezioni politiche. Come nel calcio le partite si vincono a centrocampo, nella politica italiana gli elettori si conquistano presidiando il centro dell’arco parlamentare. E intorno a questo osso i cani sono tanti e in competizione fra loro. L’estate si annuncia torrida, dopo due anni di gelo pandemico. Alla fine sapere che Sergio Mattarella continua ad arbitrare la contesa è oggettivamente tranquillizzante. Un usato sicuro e rassicurante, l’uomo giusto al posto giusto. Del resto nelle sue ultime apparizioni pubbliche nei teatri, a partire dalla prima della Scala, il vecchio/nuovo capo dello Stato è stato accolto al pari di una grande orchestra sinfonica, ‘bis, bis, bis’. Il sipario non è calato.