L’elmetto di Scipio - di Frida Nacinovich

Magari non hanno fatto il militare perché raccomandati, ma i governanti italiani, tutti o quasi, hanno il loro elmetto in soffitta o in cantina. In questa settimana l’hanno tirato fuori, gli hanno dato una bella lucidata, sono pronti a metterlo in testa. Non per ripararsi dal freddo, ma per salutare militarmente i carichi di armi che hanno deciso di inviare a est, in Ucraina. Come se non ce ne fossero già abbastanza di armamenti da quelle parti, dove già nel 2014 c’era stata una guerra, e dove per otto lunghi anni il cancro bellico non è stato curato, espandendosi fino alle tragiche conseguenze attuali. In assenza delle pur minime accortezze diplomatiche che imponevano di affrontare il nodo ucraino senza dover ricorrere nuovamente all’infamia della guerra. Che non è bella e fa schifo, non ce ne voglia il principe De Gregori. L’autorevole Lucio Caracciolo, direttore della rivista geopolitica Lines, ha definito seccamente “una visione ideologica” gli slogan che raffigurano un conflitto fra democrazie e autocrazie. Ma si sa, quando le parole si seccano in gola e prevale il rumore delle armi, non c’è speranza per la razionalità di una valutazione complessiva degli interessi di tutte le parti. Anche se il Vaticano, con duemila anni di storia alle spalle, continua a chiedere lo stop al conflitto cercando una difficile terza via tra lo status quo ante, e gli effetti devastanti di un confronto armato tra potenze dotate di spaventosi strumenti di morte. La Russia dell’autocrate Vladimir Putin, ma anche la Nato che vede tra i suoi soci ben ventisette nazioni europee, e che da tempo non è più una semplice organizzazione difensiva come quando nacque per fronteggiare l’Unione sovietica.

La politica italiana è celebre anche per la sua smemoratezza, e il paesino di Collegno rappresenta l’intera nazione. Così, se uno andasse in tv a ricordare che la Nato ha attaccato la Serbia nel 1999 al di fuori di qualsiasi compito statutario, come annota l’anziano ed esperto vaticanista Marco Politi, lo prenderebbero subito per un amico di Putin, e lo caccerebbero su due piedi dagli studi radiotelevisivi pubblici. Lì dove in fretta e furia sono state messe in tasca le mascherine e indossati gli elmetti. Ascoltare, e arrabbiarsi, per credere. Così le voci autorevoli come quelle dell’ex ambasciatore Sergio Romano, o di Barbara Spinelli, agli occhi del complesso politico-informativo italiano diventano fastidiosi, inutili, inadatte a rappresentare la contemporaneità. In altre parole da censurare, perché chi non sta con Mario Draghi, il governo dei migliori e la sua pur composita maggioranza, comunista è. Un residuo della storia, un vecchio abito da gettare senza rimpianti nei cassonetti gialli della Caritas.

In Parlamento la discussione sull’invio di armamenti - e naturalmente di consiglieri militari - all’Ucraina è stata salutata con una standing ovation. Una maggioranza bulgara, come si diceva una volta, comprendente anche la finta opposizione di Fratelli d’Italia, ha approvato la risoluzione draghiana. Solo un pugno di parlamentari - dal deputato solitario Fratoianni di Sinistra italiana alle quattro ex pentastellate che hanno fondato il gruppo Manifesta-Potere al popolo-Rifondazione comunista, per finire con i ‘ribelli’ di Pd e Leu Boldrini, Fassina, Palazzotto e Timbra - si è opposto alla virile presa di posizione di un governo dimentico dei principi costituzionali.

Ce lo chiede l’Europa? Forse, ma l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti. Così ancora una volta tocca al popolo della pace far sentire la sua voce, un popolo chiamato dai sindacati confederali, dall’associazione dei partigiani e dall’Arci, dalla rete per la pace e il disarmo e da quella Emergency letteralmente inventata dal chirurgo Gino Strada per curare le principali vittime delle guerre, e cioè la popolazione civile. Diceva Bertold Brecht: “La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente”. Se a parlare sono le armi la sconfitta è certa, e così si resta appesi ai colloqui in corso tra russi e ucraini, tenendo accesa la fiammella della speranza di un cessate il fuoco, il prima possibile. Sarà ugualmente troppo tardi, ma perlomeno potremmo dare una possibilità alla pace.


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