Guerre stellari - di Frida Nacinovich

Prima o poi doveva succedere. Due galli in un pollaio finiscono per litigare e ferirsi a colpi di becco. La politica è meno cruenta, ma segue le stesse regole. L’avvocato del popolo Giuseppe Conte, uscito dal cilindro del prestigiatore Beppe Grillo come un Bianconiglio, non era mai piaciuto a Luigi Di Maio. Come si permetteva il professore di diventare presidente del consiglio, a sorpresa, senza aver fatto nemmeno un giorno di gavetta? Dove era Conte all’epoca dei vaffaday, dei bagni di folla, degli uno vale uno, del Parlamento da aprire come una scatoletta di tonno? Giggino Di Maio ha ingoiato il rospo, ottenendo in cambio cariche ministeriali sempre più prestigiose. Un movimentista al governo, a dire il vero sempre meno combattivo, mentre il Movimento perdeva via via parlamentari ed elettori.

Ai successi di un tempo si sostituivano sconfitte su sconfitte, sia sul fronte dell’azione di governo che su quello della credibilità verso il peculiare bacino elettorale pentastellato. L’arrivo di Mario Draghi ha fatto precipitare la situazione, per il migliore dei migliori i cavalli di battaglia dell’M5S, dal reddito di cittadinanza al super bonus edilizio, erano solo sciocchezze demagogiche e populistiche, da archiviare il più in fretta possibile. E così, di fronte a un Conte sempre più amletico - uscire o non uscire dal governo, questo è il problema - il furbo Di Maio ha colto al volo l’occasione e, in un colpo solo, è diventato leader di partit(ino), fedelissimo scudiero di Draghi, intoccabile ministro della Repubblica almeno fino alle prossime elezioni politiche. Insieme per il futuro, ecco il non casuale nome dell’ultima creatura parlamentare.

Lontani i tempi del pronunciamento dal balcone di piazza Venezia “la povertà è finita”, il futuro è al centro. Un centro sempre più affollato, popolato da personaggi che fino a ieri non si sono sopportati e che ora condividono lo stesso spazio elettorale. Matteo Renzi e Carlo Calenda, De Luca e Di Maio, il sindaco milanese Beppe Sala e il governatore ligure Giovanni Toti, naturalmente devoti al guru di Benevento, Clemente Mastella. Tutti insieme ben poco appassionatamente, alla vigilia di una stagione pre-elettorale che da quelle parti sarà bollente. Tutti naturalmente con l’elmetto, ornamento ben poco cristiano ma ormai necessario per far parte della politica che conta. Invece l’avvocato del popolo, che sondando gli umori della base, ha capito che a milioni di italiani questa guerra non piace, non la comprendono e non si adeguano, ha iniziato a sfogliare la margherita: restare o non restare in un esecutivo guerrafondaio senza se e senza ma? Tanto è bastato perché il migliore dei migliori alzasse il sopracciglio, come Carletto Ancelotti, manifestando il suo fastidio verso un sottoposto che ha l’ardire di prendere la parola e criticare l’azione del suo governo.

Il resto è cronaca di oggi, quella di un Beppe Grillo governista che sembra allontanarsi progressivamente dalla sua creatura, affidandosi a Conte ma anche a Draghi. Nel mentre una robusta pattuglia di deputati e senatori ha visto in Di Maio una possibile assicurazione sulla loro carriera futura, si è cancellato dalle chat troppo di lotta ed è pronto a seguire il suo nuovo leader fino alla fine, che potrebbe arrivare presto, visto che uno dei pochissimi presunti successi che possono ascriversi è quello di avere drasticamente ridotto il numero dei prossimi parlamentari.

Con il conseguente innalzamento dell’asticella per poter rientrare a Montecitorio e palazzo Madama. Uno su mille ce la fa, come cantava Gianni Morandi. Ora, alla vigilia di un incontro chiarificatore tra Draghi e Conte, tra premier in carica ed ex premier disarcionato che finirà per non chiarire nulla, l’ultimo pensiero va alla tempistica dell’uscita di Di Maio e dei suoi fedeli dal Movimento Cinque stelle. Fatta alla vigilia del vertice Nato di Madrid, in cui l’Europa si è consegnata mani e piedi agli Stati Uniti sacrificando ogni sua residua autonomia sull’altare di una guerra permanente che Papa Francesco aveva già denunciato in tempi non sospetti.

I five stars masticano amaro ma, come si dice in Toscana, sono stretti fra l’uscio e il muro. Mentre Di Maio alle stelle ha unito le strisce, Conte che è moderato quanto lui, geneticamente democristiano come lui, non sa che fare. Un vecchio detto recita che da giovani si è incendiari e crescendo si diventa pompieri. Luigi Di Maio è invecchiato precocemente, mentre Giuseppe Conte avrà comunque un possibile futuro nella più celebre tragedia shakespeariana