Il XVI congresso della FILCAMS arriva subito dopo le elezioni politiche e soprattutto nel mezzo di una guerra dolorosa che segue i due pesanti anni della pandemia da Coronavirus. Il quadro generale, che avrà un’influenza diretta anche sul nostro congresso di categoria, dimostra che il valore della confederalità, e una visione politica generale è indispensabile per potere declinare in maniera compiuta quelle che sono le discussioni specifiche dei nostri settori. Troppo spesso, negli ultimi anni, la tentazione di chiudersi nelle logiche di categoria, ha sfiorato le nostre discussioni e molti nostri dirigenti. L’andamento economico e ciò che accade nel commercio, nel turismo, nei servizi alle imprese e le politiche degli appalti sono influenzate dalle riflessioni di carattere generale. A cominciare dalle politiche salariali e da come il sistema può reagire all’attuale crisi energetica, all’esplosione dell’inflazione che mette in crisi i salari e la tenuta del potere di acquisto delle persone.
Non credo di fare una riflessione originale se dico che per i nostri settori questo problema non nasce con la pandemia. I salari nei nostri settori sono influenzati dalle forme di occupazione (il part time involontario resta una distorsione dei nostri settori, tutti), dalla scarsa capacità di produrre valore nella produzione (pensiamo alle filiere degli appalti e al valore che questi producono), e dalla difficoltà contrattuale complessiva. Soprattutto questo tema oggi ritengo debba essere parte dei nostri ragionamenti. I tempi di rinnovo dei contratti nazionali è per noi la difficoltà più grande: difficilmente i contratti vengono rinnovati a scadenza e spesso i ritardi si contano in anni e non mesi. Questo problema non credo sia dovuto alla scarsa volontà della categoria (al di là delle normali considerazioni che possiamo, ed è giusto, fare sulla nostra capacità di spinta e di mobilitazione) ma ad un sistema che espone le parti alla sola relazione sindacale senza ulteriori e concreti strumenti. Allora forse mai come oggi dovremmo rivendicare una modifica del sistema che parta da una norma sul salario minimo, che si integri con la contrattazione senza sostituirlo, ed un sistema di rivalutazione sei salari in assenza di rinnovo contrattuale che non blocchi la dinamica salariale e renda poco conveniente alle nostre controparti il mancato rinnovo del contratto. Il mito della contrattazione come solo strumento regolatore della dinamica salariale si è sgretolato alla prova della storia: è indispensabile prenderne atto e agire di conseguenza.
Altra questione di categoria, ma che ha visione e carattere generale ritengo siano le politiche degli appalti e di come la politica continua a rapportarsi con questo tema. E’ indubbio che con gli appalti il sistema pubblico si sia liberato di diversi servizi, scaricandoli sui privati, con un doppio risultato negativo: da un lato si è stimolato un sistema di imprese che fanno dello sfruttamento sistematico e profondo del lavoro la sola leva di produzione del profitto e di conseguenza scaricano sui lavoratori i costi della riduzione progressiva del valore delle gare di appalto, dall’altro ha ridotto in maniera importante la qualità dei servizi alla cittadinanza. Io credo che nel dibattito politico oggi questo argomento sia assente e se viene citato è solo per spingere nella direzione della semplificazione: per noi dovrebbe valere esattamente il contrario e dovremmo chiedere non solo regole migliori (come facciamo con costanza e determinazione) ma anche e soprattutto il cambio di paradigma e l’internalizzazione di tutti i servizi pubblici. Troppi timori ancora coinvolgono le categorie, spesso impegnate a salvaguardare la propria base di rappresentanza a spese di una politica generale della gestione dei servizi più coerente con la nostra storia politica e gli obiettivi di salvaguardia dei diritti delle lavoratrici e lavoratori.
La stagione estiva è la stagione del turismo: nel nostro paese, uno dei paesi più attrattivi al mondo, il turismo non è industria accessoria al sistema economico, ma centrale. Peccato che però venga gestito come un complemento che porta ricchezza dall’estero ma i cui proventi vengono accumulati solo da imprenditori rapaci su cui non esiste un controllo vero ed efficiente. Il turismo sostenibile parte da un solo titolo: il lavoro. Se il lavoro è irregolare, sottopagato e sfruttato ogni slogan di turismo sostenibile si svuota di significato. Non sono le politiche del territorio e la tutela ambientale che rendono il turismo sostenibile ma come i lavoratori vengono trattati nella loro professionalità. Il settore poi vive una contraddizione immensa perché da un lato richiede altre capacità professionale che però non è disponibile a pagare. Non credo si possa affrontare questo tema come una devianza del sistema ma come la natura del sistema stesso. Nella definizione dei margini di ricavo le imprese scelgono di correre perché le stagioni sono corte, le mode turistiche a volte effimere e ciò che investo oggi deve fruttare al massimo: senza riguardo al rispetto delle leggi e dei diritti. Ebbene questa non è stortura ma il male primario del capitalismo che ragiona in termini di determinazione del profitto, a cui non si pongono limiti e su cui nessuno ragiona in termini di controllo e regolazione. Ricordiamo che le risorse che il PNRR destina all’industria turistica non sono soggette a condizionalità di nessun tipo, se non definizioni approssimative e generiche.
Da questo breve elenco di questioni mancano le politiche di genere (la nostra categoria è in prima linea su questi temi e lo dimostra con attenzione) le politiche del commercio e l’evoluzione delle reti commerciali nel rapporto con la crescita del commercio on line, e infine manca una considerazione sulle nuove forme di organizzazione del lavoro che coinvolgono lo smart working e ciò che potrà determinare in un futuro molto vicino. Anche questi argomenti che intrecciano tutte le questioni di carattere generale e confederale che mi riportano alle prime considerazioni di questo articolo: non si cada nella tentazione corporativa di tutela della categoria, perché questa idea sarebbe la fine di un modello di relazioni industriali e della strutturazione della nostra CGIL, un’organizzazione che è stata capace di affermarsi nella storia del nostro paese proprio per questa sua visione e capacità di unire il mondo del lavoro e non dividerlo.