Lo sfruttamento di classe è un segno distintivo del sistema capitalista - di Federico Antonelli

Dare continuità alla lotta iniziata un anno fa, con lo sciopero generale contro il governo Draghi, è indispensabile

La guerra ingoia tutto e blocca la speranza di un avvenire migliore per le generazioni future.

Queste parole sono parte della piattaforma della manifestazione del 5 novembre a Roma. Una giornata che ha mostrato la distanza tra le aspirazioni di pace delle persone e i progetti di chi ha in mano il governo del mondo.

In quella giornata il movimento pacifista rese visibile la propria posizione: il rifiuto delle armi per dare la parola alla diplomazia. Il 19 novembre la CGIL è stata dal Papa: ritengo questa visita l’occasione per rinsaldare il nostro sostegno alle ragioni della pace per affermare una visione diversa.

La guerra ci colpisce in modo diretto e drammatico: la crisi economica in corso è anche una conseguenza del conflitto. Crisi che colpisce la vita delle persone, che non trovano le risposte necessarie ad affrontarla negli interventi politici.

Nel nostro paese la disaffezione alla politica è drammatica: il governo attuale conta una maggioranza che non è vera maggioranza, essendo quello dell’astensione il primo partito. Ma nonostante questa consapevolezza la legge di bilancio sta nascendo come se il sostegno sociale alla sua stesura fosse completo. L’idea che le elezioni abbiano consegnato un potere assoluto al governo, forte del sostegno incondizionato del paese, va smontata. Non soltanto la natura degli interventi, ma anche il quadro di riferimento sociale è stata alla base della nostra settimana di scioperi territoriali: l’esplosione delle tensioni sociali è qua, presente e concreto. Nostro dovere incanalarle nella corretta direzione: quella del rifiuto di una politica fiscale iniqua. Il rifiuto degli ammiccamenti agli evasori, con l’aumento del contante e la limitazione dell’obbligo dell’uso del Pos; il rifiuto alla colpevolizzazione di chi è povero ed in difficoltà, contro la debolezza verso le grande compagnie a cui non si chiedono le imposte dovute dagli extraprofitti accumulati in questi mesi; il rifiuto dell’idea che il mercato del lavoro verrà migliorato dell’uso dei voucher; il rifiuto che poche risorse, e indirizzate male, destinate alle politiche previdenziali e pensionistiche, siano sufficienti per definire uno scambio sociale accettabile.

Dobbiamo combattere la logica politica che rifiuta di definire il salario minimo per legge, senza dare strumenti per rafforzare la contrattazione con la legge sulla rappresentanza.

Oggi dare continuità alla lotta iniziata un anno fa con lo sciopero generale contro il governo Draghi è indispensabile. La nostra azione, che subisce gli effetti di un evidente isolamento politico, non deve tentennare. Dobbiamo fare completamente nostre le ragioni dello sciopero e di sostenere tutte le iniziative di lotta, che sono l’investimento sul nostro futuro e sulla nostra capacità di incidere nella società e nella politica, perché la fragile unità sindacale di questi mesi ci pone di fronte scenari imprevedibili in futuro. In un quadro politico come quello attuale, con un governo di destra, classista, con il fronte sindacale disunito, una sinistra debole, distante da noi e frammentata, e con una guerra in corso che non sembra finire mai, la nostra azione deve essere assidua e senza timori. Ecco se nelle nostre ragioni ci sono molti punti di forza è nella attuazione dell’autonomia differenziata e nella sua declinazione che il tutto diventa plastico, fisicamente palpabile. Portare a compimento le “riforme” che realizzassero l’autonomia differenziata significherebbe completare l’opera di disfacimento del concetto di coesione sociale e solidarietà nel nostro paese. Significherebbe sancire la sanzione definitiva di un particolare discrimine: la disuguaglianza causata dal luogo di nascita o di residenza. Voglio dire una cosa su questo, da uomo del nord: guardate che a Milano, Torino o Venezia, e fino a Bologna o Firenze non c’è consapevolezza popolare di cosa significhi autonomia differenziata. Perché se la mia compagna di vita, che abita a Matera, deve andare fino in Toscana, per avere un accurato esame sanitario, un cittadino del nord non deve spostarsi dalla propria città. Se un ragazzo che ha completato il proprio ciclo di studi si trasferisce definitivamente al nord per poterlo trasformare in un lavoro, un ragazzo di Milano o Torino non deve farlo.

Le diseguaglianze sono il tratto del nostro presente: territoriali, di genere, generazionali, di classe. Qualche giorno fa in uno dei congressi territoriali a cui ho assistito una compagna ha chiesto di guardare il presente con occhiali nuovi: io penso si, aggiorniamoci, ma manteniamo vive le nostre analisi: lo sfruttamento di classe è un segno distintivo del sistema capitalista; la crisi permanente è strategia per le classi dominanti di consolidamento del proprio potere; solo con la consapevolezza di classe potremo combattere questo modello sociale iniquo. Le classi esistono ancora e le classi più abbienti lo sanno bene e praticano il conflitto quotidianamente. “Conflitto” una parola di cui non dovremmo temere il suono, ma che anzi dovrebbe tornare nel nostro linguaggio, sempre. Conflitto come strumento su cui costruire una società diversa.

Lavoro Società, per una CGIL unita e plurale è una forte aggregazione che vuole alimentare il dibattito nella nostra organizzazione in maniera aperta, leale, anche diretta quando serve. Noi sentiamo un peso quando facciamo la nostra analisi e ci riconosciamo in ogni parola che la nostra organizzazione esprime: molte nostre idee sono raccontate ma non sono praticate e c’è il rischio che la deriva burocratica della nostra organizzazione divenga realtà irreversibile. Nei congressi a cui ho assistito in queste settimane ho ritrovato le ragioni profonde del nostro essere sindacato. Il radicamento di rapporti con le lavoratrici e i lavoratori, il senso della partecipazione e della comunità. Offrire un luogo di elaborazione, accompagnamento e lotta a chi lavora. Non in tutti i luoghi della nostra CGIL c’è questo stesso sentimento: a volte il senso di autosufficienza di alcuni dirigenti prende il sopravvento e queste radici si indeboliscono. Ricordo il seminario che, come Lavoro Società della FILCAMS, facemmo circa quattro anni fa a Rimini: i delegati chiesero una cosa alla CGIL, coerenza. Ecco, io credo che la richiesta di coerenza debba essere al cuore del nostro impegno all’interno nella CGIL: offrire uno spazio di analisi e discussione alla base, ma anche al corpo della nostra organizzazione che rafforzi le nostre radici e il legame con le lavoratrici e i lavoratori che a noi continuano a guardare con passione e speranza.


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