Il governo Meloni ha superato quota cento. Sono i giorni di vita dell’esecutivo guidato dalla sorella d’Italia, che con nonno Silvio e quello che, nella felice definizione di Giuliano Ferrara, resta l’energumeno a torso nudo del Papeete, vuole accontentare i suoi elettori con l’autonomia differenziata e il presidenzialismo. La prima cara alla Lega, il secondo vagheggiato non solo dai camerati del ventunesimo secolo ma anche dall’accoppiata Renzi-Calenda. Vista la caratura di questi protagonisti della scena politica, non c’è da aspettarsi alcunché di buono. Non per caso i sindaci del Meridione sono in rivolta, nella scuola serpeggia un nervosismo crescente, la maggioranza dei giuristi ritiene molto accidentato e lungo da percorrere un sentiero del genere. Anche sul presidenzialismo la coalizione governativa non ha intenzione di fare passi indietro, ricordando che è stato fulcro del programma elettorale. Intanto però nel cassetto delle cose fatte in questo avvio di legislatura è finita roba come il decreto anti-rave per impedire ai giovani di far festa, la telenovela del Pos per tornare al vecchio contante, quello che fa dell’Italia un piccolo paradiso per gli evasori fiscali. Ancora, la guerra santa ai cinghiali, poveretti, considerati peggio delle locuste e buoni solo morti, come i pellerossa del far west statunitense. Dagli agli ungulati. Capitolo a sé quello dei migranti, pochissimo amati dalla fortezza Europa e ora costretti a lunghe peregrinazioni sulle navi delle Ong prima di mettere piede a terra. Senza pietà. Ultima ma non certo per ultima la guerra. Di fronte alla quale, a onor del vero, il nostrano, muscolare, governo di destra si trova perfettamente a suo agio in mezzo a tanti illuminati statisti continentali. Pronti a spendere miliardi e miliardi in armamenti “fino alla vittoria finale”, mentre mezza Europa è in piazza perché la gente sta male e pur lavorando non arriva alla fine del mese. Cento giorni di governo Meloni, se il buon giorno si vede dal mattino ombrelli a portata di mano.