Torniamo a parlare di sostenibilità, di modelli distributivi e di diritti
Leggevo in questi giorni un articolo su un noto giornale on line in cui si santificava la Grande Distribuzione ritenendo che abbia fatto da ammortizzatore sociale per le famiglie in questo periodo in cui il salario (e il lavoro) hanno subito una forte contrazione.
Se non si può negare che i prezzi praticati dalle grandi catene di supermercati/ipermercati/discount siano più bassi di quelli praticanti dai bottegai di quartiere, non si può nemmeno far finta di non vedere quello che nascondono in termini di sostenibilità, sia essa lavorativa, ambientale o relativa alla filiera produttiva (agroalimentare e non).
Siamo sommersi da volantini invitanti, che ci sbattono in faccia giorno dopo giorno quanto sia conveniente fare la spesa in quel determinato negozio della GDO, sia esso un supermercato, un megastore, un ipermercato o un discount. E ogni potenziale acquirente si ritrova alla caccia all’affare senza spesso riflettere sul lato nascosto che si trova dietro a queste promozioni e al prezzo che poi pagherà indirettamente, perché alla fine tutto torna.
E allora, in modo molto semplice ed elementare voglio provare a fare delle osservazioni.
“Si è poveri pur lavorando”: sembra uno slogan ma spesso è la triste verità che fa coppia con “preferiscono il reddito di cittadinanza piuttosto che un lavoro”. Ora sembra che queste mie due affermazioni poco si incastrino con la grande distribuzione ma non è così. E’ un dato di fatto che chi rifiuta un lavoro per mantenere il reddito di cittadinanza, spesso lo fa perché lo stipendio che percepirebbe lavorando sarebbe più basso e quindi, pur lavorando, sarebbe povero, così come sempre di più è povero anche chi un lavoro ce l’ha e a tempo pieno.
Fare la spesa è e rimane una priorità e il risparmio lo è ancor di più. Ma siamo sicuri di risparmiare davvero? E a che prezzo? La Grande Distribuzione ha di fatto cancellato i negozi di vicinato. I centri commerciali sono posti spesso alle periferie delle città e raggiungibili solo con i mezzi propri sia per una questione di orari delle corse, sia perché quando si fa la spesa è più comodo avere la propria automobile; e questo vale sia per il trasporto dei beni acquistati che per la loro conservazione e integrità: pensiamo per esempio all’acquisto di surgelati.
I centri commerciali, ma anche i supermercati in genere, si caratterizzano perché hanno dei lunghi orari di apertura, spesso oltre le 12 ore giornaliere e quasi sempre sono aperti 7 giorni su 7, quasi 365 giorni l’anno.
Si alimentano di aria forzata e quindi il riscaldamento resta acceso in inverno e l’aria condizionata in estate per tutto il nastro orario di apertura.
Queste catene acquistano grandi quantità di beni alimentari che possono restare stoccate e di conseguenza si creano sprechi e produzione di rifiuti: questi sono temi che non vengono mai affrontati, ma che in realtà producono un grande impatto.
Le questioni che ho fin qui affrontato, solo per titoli, sono traducibili però in costi per queste catene. E dunque, come possono, nonostante tutto, mantenere prezzi bassi e continue promozioni? Chi paga questo prezzo?
Mi rendo conto che la risposta sarebbe molto articolata e complicata e quindi mi limiterò ad affrontarla solo dal lato “sindacale”, tralasciando il sistema che si regge sulle centrali di acquisto e sullo strapotere che si abbatte sui piccoli produttori, che a sua volta avrà comunque ripercussioni sulla qualità di quello che mangiamo, sulla sostenibilità ambientale e, di nuovo, sul lavoro.
Scelgo però volutamente di soffermarmi soltanto sulla parte che riguarda il lavoro, sia in termini di ricaduta occupazionale che di organizzazione del lavoro.
Mi permetto un’osservazione scontata e banale: il volantino promozionale serve ad attirare il cliente in negozio, con prodotti a prezzi accattivanti, contando però sul fatto che poi il cliente continui comunque a fare la spesa lì, acquistando anche articoli che gli servono ma che non sono in promozione; e che garantiscono all’azienda il margine di guadagno.
Fra le varie realtà della Grande Distribuzione c’è la massima attenzione all’allineamento dei prezzi dei vari articoli non in promozione per non essere fuori mercato. Vi sarà capitato sicuramente di vedere persone che girano nei supermercati a fare la rilevazione dei prezzi…
Quindi, da una parte c’è la ricerca del margine sui prezzi non in promozione, ma proprio a fronte delle difficoltà economiche affrontate dalle famiglie l’attenzione ai prezzi è sempre più forte e molte persone comprano solo articoli in promozione.
Un’altra leva su cui può agire la grande distribuzione è il costo del lavoro. Non è difatti un caso se in molte catene della GDO si assiste al continuo utilizzo di ammortizzatori sociali e alle continue dichiarazioni di esuberi.
Ma non solo. Una strategia comune di questi gruppi è stata e continua ad essere la cancellazione dei contratti integrativi e il mancato rinnovo dei CCNL, insieme al ricorso al precariato.
Queste sono sicuramente metodologie adottate in quest’ultimo lustro, ma forse anche nell’ultimo decennio, e che hanno prodotto un notevole risparmio in termini economici. Portando ad un notevole peggioramento delle condizioni di lavoro, sia rispetto all’organizzazione del lavoro che alla conciliazione con i tempi di vita.
So di non aver scritto niente di nuovo, ma le ho volute rimettere in fila perché si possa articolare una riflessione semplice ma facilmente comprensibile di quanto sia tutto collegato, di quanto si faccia parte tutti di un unico sistema. Nel quale, ad esempio, il problema del produttore di vino, costretto ad avere il prezzo imposto dalla centrale di acquisto, sia lo stesso del lavoratore a termine e viceversa; dove il problema della sostenibilità ambientale sia legato a filo doppio a quello dei salari e del potere di acquisto o al sistema dei rifiuti e della raccolta differenziata.
Scriverlo su “reds”, in un contesto in cui a leggerlo sono compagni e compagne che hanno nel loro DNA questa consapevolezza, è quasi ridondante; ma lo ritengo uno spunto perché si ricominci a pensare quanto sia importante tornare a fare “cultura”, a far passare questi semplici messaggi anche a chi banalmente non ci aveva mai pensato.