“Rumba. L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato” di Ascanio Celestini
Due ore, interrotte solo per sorseggiare un po’ di acqua al termine dei quadri mentre il pubblico lo copre di applausi, servono ad Ascanio Celestini per raccontare oggi la vita di un giovane d’Assisi noto alle locali cronache per l’amor della Francia, da cui appunto Francesco. Un lavoro teatrale che è, prima di tutto, un lavoro di ricerca sulla storia e sui testi, sulle parole, sulla musicalità dei lunghi e prorompenti monologhi. Un lavoro così denso e coinvolgente che scorre sopra all’intreccio di citazioni, al teatro nel teatro, alle formule che permettono alla memoria di recuperare le parole e al pubblico di masticare la storia.
Per interpretare la vita di Francesco, il Santo che in vita santo non voleva essere, Ascanio Celestini sceglie le vite dei poveri di oggi in un racconto in cui sono intrecciati le povertà contemporanee: poveri di beni e poveri di amore. Gli operai alienati della logistica; gli immigrati torturati in Africa, poi reclusi in Europa e infine abbandonati come barboni nelle periferie; un padre che perduto il figlio a cui si era manifestata una terribile malattia che ora scarica la sua rabbia nel più classico dei razzismi, quello contro il popolo rom; l’impiegato che scopre l’illusione dei corsi seguiti; i carcerati seviziati e picchiati dai secondini.
La vita di Francesco scorre in un intreccio di storie, un intreccio di vite, ognuna per sé ma ognuna insieme alle altre. Un intreccio di vite indistinguibili, come le molte stelle del cielo. Un intreccio di vite compagne, come i compagni che condividono il pane. Il pane della povertà. È una vecchia con i lunghi capelli che affacciata al balcone li dipana continuamente in fili. Sempre lì, sempre intenta nel suo lavoro ogni volta che si alza a lei lo sguardo.
Francesco, il compagno Francesco, ricorda Engels che cerca nei tuguri degli operai irlandesi le ragioni dell’ingiustizia. È questo il grande pregio di Celestini al confronto con la tematica religiosa, con il presepe in cui vi è solo il bue e l’asino. Il pregio di non cedere in quella dimensione lirica e cortese che trasforma la sofferenza dell’oppressione in sacrificio e che spesso incontriamo quando artisti un tempo cari ai lavoratori toccano la religione. Ascanio Celestini non tocca il sacro, non cede mai in questo suo racconto alla retorica del sacrificio e della predestinazione. Il Francesco di Ascanio Celestini non è borghese, ha rotto davvero con il padre e con le miserie umane. Le miserie dei ricchi. Il Francesco di Ascanio Celestini è una denuncia continua, una denuncia che parla solo con l’intreccio continuo e indissolubile delle vite dei compagni, di coloro che condividono il pane della povertà.
Chi può vada a teatro e scopra quel meraviglioso ingrediente segreto che Giobbe, l’unico operaio italiano e analfabeta nel grande magazzino della logistica, mette nel caffè del preposto, perché certo noi poveri siamo tutti uguali ma quelli che hanno ceduto, che sia il preposto a servizio del padrone o il razzista che piange la morte del figlio, almeno qualche vendetta meritano: l’ingrediente segreto in un caso, il crudo e realistico racconto di Celestini nell’altro.