L’articolo 36 della Costituzione afferma il diritto di ciascun lavoratore a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e, in ogni caso, sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Nel disegno costituzionale è chiaramente individuata la competenza in materia salariale affidata alla contrattazione collettiva ed è segnata la strada attraverso cui sarebbe possibile fissare la retribuzione proporzionata e sufficiente nei diversi settori produttivi, tramite cioè il meccanismo descritto dall’art. 39, quella del contratto collettivo reso efficace erga omnes; risulta però ad oggi assente un procedimento legale attuativo dell’art. 39 della Costituzione tale da assicurare alla contrattazione collettiva di categoria l’efficacia soggettiva erga omnes.
Da uno studio condotto da Nicolò Giangrande, ricercatore presso la Fondazione Giuseppe Di Vittorio (FDV), emerge che in questi ultimi tre anni risultano depositati al CNEL 172 nuovi CCNL, dei quali 166 a cura delle organizzazioni sindacali “minori”, mentre nell’arco degli ultimi tredici anni sono stati depositati presso il CNEL da parte di suddetti sindacati un notevole numero di 671 contratti collettivi, i quali costituiscono la quasi totalità (95,58%) di tutti i nuovi CCNL depositati al CNEL nel medesimo periodo.
I contratti collettivi figli delle organizzazioni minori nascono con l’intento di limitare le tutele contrattuali dei lavoratori, sia dal punto di vista normativo che economico, riducendo così il costo del lavoro per quelle imprese che, noncuranti delle conseguenze relative alle condizioni di lavoro e della qualità dell’offerta, svolgono attività di concorrenza sleale, contrastando la concorrenza delle aziende più rispettose di regole e norme. L’applicazione di questi “contratti collettivi” (i cosiddetti “contratti pirata”), stipulati ad hoc da organizzazioni sindacali e datoriali di dubbia rappresentatività, presentano un contenuto fortemente peggiorativo, sia dal punto di vista normativo che economico, rispetto ai contratti sottoscritti dagli attori comparativamente più rappresentativi. Da qui il fenomeno del dumping contrattuale.
CCNL sottoscritti da organizzazioni sindacali il cui grado di rappresentatività – inteso non solo alla stregua del criterio associativo e quindi attraverso una valutazione aritmetica degli iscritti – è scarso in alcuni casi o comunque non adeguato, se comparato a quello delle altre organizzazioni che sottoscrivono CCNL aventi il medesimo campo di applicazione, seppur legittimati giuridicamente, ci portano a dover riflettere sulla genuinità dell’interesse sindacale di cui la confederazione si dichiara portatrice; giacché alla stessa aderiscono non soltanto organizzazioni sindacali dei lavoratori, ma anche associazioni datoriali.
Sarebbe necessario contestare la riconduzione di una tale organizzazione nell’alveo dell’articolo 39 della Costituzione, poiché con l’ articolo 17 dello Statuto dei lavoratori il legislatore ha negato cittadinanza nell’ordinamento ai sindacati misti, con l’intento di proteggere un determinato bene: la “genuinità” delle relazioni sindacali, che subirebbe un vulnus irreparabile se nel campo sindacale si infiltrasse una “quinta colonna”, quale sarebbe un sindacato costituito o finanziato dall’imprenditore; che è tutt’altra cosa, beninteso, da un sindacato portatore di una linea collaborativa, piuttosto che antagonistica, nei riguardi della controparte.
Il sindacato non è tale solo nella forma, ma anche negli obiettivi che persegue e negli strumenti scelti per ottenerli, avendo come scopo la tutela dell’interesse professionale dei lavoratori mediante l’azione collettiva degli interessati nei confronti dell’altra parte del rapporto di lavoro, il datore di lavoro; è dunque legittimo negare la natura sindacale a un contratto collettivo rispetto al quale non esistono piattaforme rivendicative che individuano le aree tematiche di interesse delle parti, non sono stati proclamati scioperi quali forme di espressione di un determinato conflitto di interessi rispetto a specifici istituti contrattuali, non sono state esperite procedure di confronto negoziale anche con i diversi livelli di rappresentanza, ma che si limiterebbe solo formalmente ad elencare una serie di disposizioni. In questo senso, si è parlato, infatti, di un «vero e proprio snaturamento della negoziazione sindacale».
I giudici della Corte di Appello di Milano nel 2022 hanno rilevato che, fino ad oggi, la giurisprudenza aveva fatto ricorso alla contrattazione collettiva nazionale come parametro di riferimento per dare contenuti all’art. 36 della Costituzione, superando in questo modo il vuoto legislativo dato dall’inattuazione della seconda parte dell’art. 39: il sistema è andato in crisi con la rottura dell’unità sindacale e con il fenomeno del dumping sociale e dei cosiddetti “accordi pirata”, nonché con la proliferazione dei contratti collettivi nella stessa categoria che amplia ulteriormente la possibilità di scelta da parte dei datori di lavoro su quale contratto collettivo applicare ai propri dipendenti, specie nei settori ad alta intensità di manodopera (istituti di vigilanza, logistica, portinai di stabili, ecc.). La Corte ha insistito affermando che gli stessi contratti collettivi stipulati da organizzazioni sicuramente rappresentative prevedono minimi salariali troppo bassi: i giudici supportano il ragionamento generale analizzando la questione anche da ulteriori punti di vista, al fine di affermare l’esistenza di un principio di parità di trattamento – che in materia non esiste – ma serve solo a verificare l’adeguatezza della retribuzione; l’analisi è fatta su un contratto a tempo pieno, il che impedisce al lavoratore di poter integrare il proprio reddito svolgendo altre attività lavorative; l’insufficienza retributiva viene fuori in modo netto anche se comparata all’ex reddito di cittadinanza.