Non c’è una politica che ci rappresenta? Affrontiamo il problema - di Andrea Montagni

Maurizio Landini, sul piano del posizionamento sindacale e di quello politico, è il segretario più a sinistra che la CGIL abbia espresso nei suoi 117 anni di storia (se consideriamo che sia stata fondata come CGdL nel 1906, o nei suoi 81, se la facciamo nascere nel 1944 col Patto di Roma); è il segretario che esprime una autonomia compiuta - sin quasi alla indipendenza - del sindacato dal quadro politico e dai partiti che ne sono espressione e al tempo stesso (un veltroniano direbbe non solo ma anche) il segretario più lontano sul piano culturale - quasi sino alla rivendicazione - dalla tradizione del movimento operaio storicamente organizzato.

Più volte Landini ha attribuito la scissione sindacale del 1948 alla divisione geopolitica tra filo USA e filosovietici, mettendo in secondo piano tanto quella valoriale (si sarebbe detto ideologica) tra comunisti e socialisti da una parte e democristiani dall’altra, rimuovendone totalmente le ragioni di merito sindacale (sindacato generale di classe, contro sindacato corporativo delle categorie).

Landini ha una grande capacità di vedere le cose come stanno; ha colto la lontananza totale tra la massa dei lavoratori, sia di quelli organizzati, i meno, e tra quelli disorganizzati, i più, e partiti di sinistra, vissuti ormai come estranei al pari dei partiti della destra o considerati, nel caso del PD, come il principale responsabile delle sconfitte subite negli ultimi 30 anni.

Le pensioni e il jobs act sono visti come esempi chiave di questa rottura. Come militanti sindacali, viviamo ogni giorno un paradosso crescente, uno iato sempre più largo tra la nostra soggettività, l’attenzione di molti di noi alle vicende del PD e della sinistra e il disinteresse fino al disprezzo di tante e anche tra gli iscritti verso quei partiti.

Landini deriva da questa consapevolezza anche un posizionamento culturale non tattico, vedi i richiami a papa Francesco o l’individuazione nella “persona” e nella “democrazia” dei cardini di una linea valoriale e politica che esclude rotture paradigmatiche del quadro politico e sociale, ma pone solo la necessità di “un superamento”, in questo rompendo con il marxismo.

Questa contemporaneità tra radicalità e pragmatismo ideologico - come direbbe lo stesso Landini, “un fatto inedito nella nostra storia” - pone una riflessione a quei compagni che come me avvertono la necessità di un rapporto strutturale tra sindacato e proiezione politica in un soggetto di trasformazione sociale che si definisca e si riconosca di classe, anticapitalista e socialista.

Se siamo convinti che il socialismo e la lotta di classe restino il nocciolo della nostra interpretazione delle dinamiche sociali, possiamo limitarci a sostenere le posizioni di autonomia e di indipendenza che condividiamo o dobbiamo andare più in là?
Sono 20 anni ormai che le esigenze della rappresentanza politica appaiono sempre più lontane dai bisogni delle persone, o non sono comunque avvertite come sensibili rispetto ai problemi quotidiani. La protesta contro il ‘sistema’ raccoglie consensi anche tra i lavoratori, financo tra gli iscritti, fornendo importanti (e preoccupanti) indicazioni sul piano popolare. Lo scenario è quello del populismo diffuso, seppur con varie gradazioni. In questo scenario prima la Lega, poi i 5 stelle, ora la destra neofascista hanno inciso sull’elettorato popolare, quello che non si è spinto via via sulla strada dell’astensione.

La mancanza di partiti di riferimento non è una facilitazione, è una difficoltà per chi voglia riaffermare nel XXI secolo la necessità che la classe lavoratrice si riorganizzi in un partito che si batta per la trasformazione sociale, che sia radicato nei luoghi di lavoro e nella società e che abbia col sindacato un rapporto fecondo come quello che ebbero con la CGdL il PSI e il PdCI e poi nel dopoguerra, comunisti, socialisti unitari e socialisti di sinistra con la CGIL. Un partito che guardi all’universo mondo e non soltanto al cortile di casa.

I quadri sindacali non dovrebbero essere indifferenti alla lotta per la ricostruzione di una sinistra politica internazionalista.

E’ un miserevole succedaneo godere dei risultati dell’applausometro quando quadri “in voga” della sinistra politica si presentano ai nostri congressi e convegni o, peggio, organizzare cordate elettorali per le elezioni regionali o amministrative per mendicare qualche eletto nelle liste del PD o di SI, e domani dei 5 stelle, nella speranza che una volta eletti facciano da lobby per conto nostro.

Dobbiamo mantenere la autonomia ed incalzare sul piano dei programmi le forze di sinistra, ma favorire - anche con le opportune modifiche statutarie - la partecipazione dei delegati e degli attivisti - alla vita politica.

Dobbiamo rompere con l’idea dell’incompatibilità tra azione sociale e azione politica. Se in politica non ci rappresenta più nessuno, se non c’è una politica che ci rappresenta, si tratta di un problema che va affrontato.

Non bisogna escludere un intervento più diretto in politica. Dobbiamo discuterne senza agitare tabù.

 

“Esser rossi vuol dire avere chiaro che nel lavoro sindacale la bussola d’orientamento è la trasformazione sociale. Combattere oggi per conquistare il domani, senza rassegnarsi all’ineluttabilità del neoliberismo: un altro modello è possibile.”
[‘Una bussola per orientarsi’, di Andrea Montagni, “reds” n. 1, maggio 2012]


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