Come l’influenza all’inizio della stagione fredda, la manovra economica di ottobre-novembre colpisce indiscriminatamente (quasi) tutti. Ragazzi che si affacciano al mondo del lavoro, cinquantenni che vedono sempre più lontano l’orizzonte della pensione, lavoratori poveri piagati da un’inflazione che non accenna a diminuire, per finire con gli stessi pensionati, visto invariabilmente come un bancomat cui lo Stato fa ricorso nei momenti difficili.
Non è un paese per vecchi il nostro, e nemmeno per giovani. Come nel film dei fratelli Coen l’imperativo è la sopravvivenza in un mondo travolto dalla terza guerra mondiale a pezzi, come denunciò Papa Francesco quasi dieci anni fa, da una lotta di classe che vede il capitale sempre più imperante nei confronti del lavoro, e da una sempre più pericolosa estensione di quelle crisi climatiche i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti.
In questo contesto, le scelte governative confermano la natura ordoliberista che sta segnando fin dall’inizio il cammino di Meloni, Salvini e Tajani.
La nuova Casa delle libertà, che tanto assomiglia alla vecchia, si giustifica spiegando che quella della manovra economica è una strada obbligata, che il debito pubblico italiano resta sempre troppo alto, che il compito dell’esecutivo è quello di aiutare le imprese ad essere competitive nel mondo globalizzato.
Traduzione: pochi aiuti per chi pur lavorando fa fatica ad arrivare a fine mese, braccia aperte invece a chi investe per l’Italia migliore.
Quella del ponte sullo stretto di Messina, del riarmo generalizzato, della progressiva desertificazione industriale cui si continua a non porre rimedio. Non ci si stupisca allora se il paese che lavora torna ad affollare le piazze, protestando di fronte alla riduzione dei finanziamenti per la sanità, la scuola, il welfare. Si fa presto a dire America.