Cambia il timoniere, ma la rotta resta sempre quella tracciata da Silvio Berlusconi trent’anni fa: la magistratura, le toghe rosse, complottano ai danni del governo eletto dalle italiane e dagli italiani. Sia chiaro, quando i giudici condannano ladri, spacciatori e drogati fanno bene il loro mestiere, tutelando la sicurezza dei cittadini e combattendo il degrado. Ordine e disciplina, mano di ferro in guanto di acciaio. Quando però qualche magistrato ha il coraggio di spulciare i conti di Vittorio Sgarbi, gli affari di Maurizio Gasparri o quelli di Daniela Santanché, dai vari canali di Telemeloni, l’ex Raiset, e dai quotidiani di destra, si rispolverano le classiche parole d’ordine, quelle che, come gli abeti, restano sempreverdi: giustizialisti, manettari, golpisti. Così va a finire che la nobile parola garantismo viene piegata, al solito, come si piega un salice quando arriva l’ormai periodica tempesta tropicale.
Le ultime da palazzo Chigi raccontano che il governo pensa a test psico-attitudinali per chi, laureato in giurisprudenza, vuol fare il concorso per entrare in magistratura. Un progetto che non era venuto in mente nemmeno a Matteo Renzi, che pure sul tema ha una spiccata sensibilità. Di più, i magistrati, sia giudicanti che requirenti, dovrebbero essere valutati in base all’esito dei loro provvedimenti. Così è un fiorire di dichiarazioni a dir poco pittoresche: “So di riunioni per fermarci”, tuona il ministro Crosetto; “Ci aspettiamo inchieste a orologeria”, raddoppiano i leghisti; “La riforma della giustizia è urgente”, chiude il cerchio il reggente forzista Antonio Tajani. Parole che in un momento del genere, tra guerre, migrazioni forzate, contestazioni a una manovra economica che al solito penalizza chi per vivere deve lavorare, e una crisi climatica e ambientale sotto gli occhi di tutti tranne che del governo Meloni, fanno pensare alla consueta arma di distrazione di massa per ricondurre il dibattito pubblico sui consueti binari cari alla destra. Niente di nuovo sotto la pioggia.