Una legge sulla rappresentanza e la democrazia nei luoghi di lavoro
Pubblichiamo parte della comunicazione che Giacinto Botti, allora delegato FIOM del gruppo Italtel e Vicepresidente del CDN della CGIL, fece ad un Convegno delle lavoratrici e dei lavoratori del Partito dei Comunisti italiani il 9 aprile del 2000. La Commissione Lavoro della Camera era riuscita a trovare una buona mediazione e a proporre alla Camera un testo unificato con 12 articoli. Nel mese di luglio ne erano stati approvati 9. Mai si è andati così vicino. Non spaventi la distanza temporale (sono passati più di 20 anni). La prima volta che la CGIL pose la questione di una legislazione a tutela dei diritti del lavoro fu nel 1947, e lo Statuto dei Lavoratori è del 1970.
Nel 1997, con la Legge Bassanini, quando Sergio Cofferati era segretario generale della CGIL, Gian Paolo Patta (allora coordinatore nazionale di Lavoro Società, segretario confederale della CGIL con delega al Pubblico impiego) e Paolo Nerozzi, segretario generale della FP-CGIL, fu raggiunto un accordo che portava alla realizzazione per legge delle RSU nel pubblico impiego e nella scuola e a definire i criteri di rappresentanza che consentono solo a sindacati che rappresentino più del 51% dei lavoratori interessati di sottoscrivere contratti sia nazionali che aziendali e che fa delle RSU le contitolari della contrattazione di secondo livello.
Se l’obiettivo è giusto, resiste nel tempo… Quel che occorre è la tenacia e la determinazione nel perseguirlo. Come amo ripetere, la talpa scava lentamente ma lavora con metodo.
“In linea di massima la legge sulla rappresentanza sindacale e la democrazia, in quanto insieme di principi e regole deve prevedere:
1) la costituzione di una struttura elettiva in tutti i luoghi di lavoro, dotata di autonomi e certi poteri di contrattazione in ambito aziendale e territoriale;
2) l’elezione certa da parte di lavoratori e di lavoratrici con voto libero, segreto con sistema proporzionale dei propri rappresentanti in tutti i luoghi di lavoro;
3) l’unificazione delle regole delle rappresentanze elettive tra lavoro pubblico e privato, tra la piccola e la grande azienda;
4) un’articolazione più idonea delle forme di rappresentanza, in un mondo del lavoro in cui si sono modificate l’organizzazione del lavoro, i rapporti e le forme di interdipendenza tra le aziende con lavoratori sempre più atipici e precari;
5) un processo di democrazia “avanzata” per consegnare ai lavoratori il diritto di partecipare alle elaborazioni delle piattaforme, di contare e di decidere nei percorsi dei contratti nazionali e di azienda, sino all’atto finale di un voto di consenso per la convalida degli accordi.
Questi erano gli obiettivi fondamentali dei 22 delegati del movimento dei consigli unitari che, il 18 dicembre 1992 su mandato dell’assemblea nazionale, tenutasi il 27 novembre 1992 al Teatro Lirico di Milano, hanno depositato presso la Corte di Cassazione di Roma due quesiti referendari per l’abrogazione degli art. 19 e 47 delle leggi 300/1970 e Lgs 29/1993. Leggi che mantenevano nel settore privato e pubblico un aprioristico “monopolio” della rappresentanza sindacale.
L’obiettivo dell’azione referendaria era quello di richiamare il Parlamento alla necessità di una legge sulla democrazia e la rappresentanza adeguata, rispondente ai cambiamenti avvenuti nel lavoro e alle richieste provenienti dai luoghi di lavoro.
Il movimento dei consigli chiese una firma non solo per abrogare delle leggi ma si raccolsero oltre 300. 000 firme su una proposta di legge di iniziativa popolare per sollecitare il Parlamento a legiferare una nuova normativa. La stessa CGIL, investita dall’azione politica e referendaria, dopo la manifestazione di 300.000 del 27 febbraio 1993 a Roma indetta dai consigli di fabbrica, raccolse oltre 600.000 firme a sostegno di una legge di iniziativa popolare, non difforme da quella dei Consigli.
Contemporaneamente si costituì a Roma il 6 febbraio 1993 il comitato nazionale “per il referendum per la democrazia sul luogo di lavoro” con l’adesione di un ampio schieramento di partiti, sindacalisti ed associazioni.
Il 15 giugno 1995 i cittadini con il voto cancellano una parte dell’articolo 19 e totalmente l’articolo 47.
Si è posto al legislatore e alle forze politiche e sindacali la necessità di intervenire con una nuova legge per coprire i vuoti insostenibili nel settore pubblico e riequilibrare la rappresentanza nel settore privato. Una legge che prefiguri un atto di equilibrio tra le funzioni ed i poteri dell’associazionismo sindacale - che ha un ruolo positivo nella storia del paese - ed il diritto dei lavoratori di eleggere in strutture elettive i propri rappresentanti.
Negli anni 92/93 la crisi del sindacato confederale, esplosa con l’accordo di luglio 1992 che cancellava la scala mobile, firmato a fabbriche chiuse e senza il consenso dei lavoratori, ha prodotto la campagna referendaria e costretto CGIL-CISL-UIL all’intesa sulle RSU nell’ambito dell’accordo del 23 luglio 1993.
Questo breve accenno di storia per ricordare che la legge sarebbe il coronamento di una stagione di lotta e di mobilitazione straordinaria di migliaia di delegati e di sindacalisti, di dirigenti politici e di lavoratori.
Il Referendum abrogativo sull’art. 47 e il voto referendario hanno costretto le parti in causa, il governo, i sindacati e l’Aran (agenzia pubblica per la contrattazione) a raggiungere un accordo per il settore pubblico trasformato successivamente in legge.
La legge realizzata contiene quasi tutti gli elementi qualificanti che erano alla base delle richieste dei Consigli unitari e della CGIL, rappresenta uno dei pochi successi politici di movimento di questi anni.” (…)