Pride e rainbow washing - di Costantino Loi

“Nessun orgoglio per alcune di noi senza liberazione per tutte noi!”

Se il mese appena passato dovrebbe celebrare e commemorare i moti di Stonewall del 1969, che hanno dato inizio al moderno movimento per i diritti LGBTQ+, il suo significato originale di lotta sociale diventa però sempre più difficile da riconoscere laddove il capitalismo prova a rendere guadagno commerciale un simbolo collettivo di forte significato sociale, politico e culturale.

È il fenomeno del rainbow washing: la pratica sempre più diffusa nei paesi occidentali di aziende, istituzioni o organizzazioni di mostrare un supporto superficiale per la comunità LGBTQ+ durante il mese del Pride o in altre limitate occasioni, spesso per motivi di marketing o pubbliche relazioni, senza però concretizzare un impegno reale e tangibile nei confronti dei diritti delle persone LGBTQ+.

Negli ultimi dieci anni le marce del Pride sono passate da eventi di protesta a manifestazioni più mainstream, attirando l’interesse di grandi aziende desiderose di capitalizzare sulla visibilità mediatica e sull’incremento della consapevolezza pubblica relativa a questi temi.

Durante il mese di giugno, in particolare, è comune vedere aziende modificare i propri loghi con i colori dell’arcobaleno, lanciare prodotti in edizione limitata o pubblicare messaggi di sostegno sui social media.

Tuttavia, queste iniziative mancano nella maggior parte dei casi di sostanza e di impegno, trasformandosi in un atto performativo e forse paternalistico di supporto “obbligato” e non corrispondente a un tangibile contributo alla lotta e al sostegno dei diritti civili.

La monetizzazione della bandiera arcobaleno, un simbolo pubblico e ideologico, è un atto dannoso perché è in fondo un gesto di convenienza revocabile all’occasione: dove il mercato dimostra di non accogliere con favore questa strategia di marketing, ecco che il supporto sparisce.

Emblematico è il caso di una nota azienda automobilistica, con logo arcobaleno in bella mostra nei profili social degli stati europei in cui è presente, ma non ad esempio nelle sue pagine dedicate per l’Arabia Saudita e l’Indonesia, Paesi che criminalizzano o discriminano l’omosessualità in veste governativa e, pertanto, non risultano profittabili o sfruttabili sul versante marketing relativamente a questi temi.

Il messaggio è chiaro: vogliamo aiutarti a celebrare la tua identità solo se possiamo trarne profitto e vogliamo che tu restituisca questo favore comprando i nostri prodotti o permettendoci di ripulirci l’immagine strumentalizzando la tua lotta.

Questo non vuol dire che la popolarità e l’importanza del Pride non debbano essere riconosciute, perché riflettono i progressi fatti dalla comunità per poter esistere e resistere e perché servono da rimando alle lotte del passato e del presente.

È però importante alimentare una discussione già presente all’interno del movimento rispetto al tentativo capitalista di fagocitare istanze e persone in nome del Dio Profitto, in un’inclusione che è di fatto appropriazione.

Se da un lato la partecipazione ai Pride e il sostegno alle istanze LGBTQIA+ da parte del Sindacato risulta come un atto dovuto a quella platea di lavoratrici e lavoratori che abbiamo il dovere di rappresentare e sostenere, dall’altro andrebbe invece maggiormente messa in discussione l’adesione di realtà lavorative o governative eticamente problematiche.

Non possiamo permettere ad aziende e governi di ripulire a discapito della comunità Queer un’immagine sfocata dalla privazione dei diritti di lavoratrici e lavoratori, dal mancato impegno su temi ambientali o di sostenibilità fino a situazioni limite in cui chi chiede di sfilare ad un Pride lede quotidianamente i diritti umani di altri popoli, minacciandone la sopravvivenza.

E così lavoratrici e lavoratori, compagne e compagne, associazioni e movimenti, la prossima volta che vedremo un’azienda cambiare il suo logo con un breve messaggio di inclusività o la sentiremo chiederci di sponsorizzare una nostra manifestazione dobbiamo porci le seguenti domande: Qual è la reale motivazione? Questa posizione è coerente con altre decisioni precedenti? Posso accogliere con favore il sostegno di chi sfrutta altre fasce demografiche e la classe lavorativa? Posso accettare di marciare di fianco a chi nel difendere apparentemente i miei diritti nega quelli di altri o li calpesta?

Per trovare una risposta ci vengono in aiuto le parole di Marsha P Johnson - storica attivista e protagonista dei Moti di Stonewall - intersezionale prima ancora che questo termine venisse coniato: “Nessun orgoglio per alcune di noi senza liberazione per tutte noi!”.


Email