Sisifo viene condannato a un’eterna fatica: trasportare sopra una montagna un masso che inesorabilmente ricade giù appena toccata la cima. Un mito greco che oggi diventa (ahinoi) un’immagine perfetta per rappresentare la condizione dei lavoratori degli appalti, intrappolati in un circolo vizioso di precarietà ed emergenza salariale.
Non importa che formalmente il contratto sia indeterminato, alla prossima gara si rischia tutto, le condizioni di lavoro e la qualità se va male, il posto se va malissimo. Miglioramenti o conquiste varie ottenuti con la lotta sindacale possono svanire nell’appalto successivo e allora si ricomincia tutto daccapo.
Come se non bastasse, gli appalti sono caratterizzati, ovunque e in qualsiasi settore, da una radicale frammentazione: da una parte quella “fisica” della forza lavoro, raramente concentrata in una o poche sedi; dall’altra quella “contrattuale”, cioè persone con le stesse mansioni ma trattamenti economici o addirittura ccln differenti.
Se a ciò aggiungiamo pure un complesso sistema di scatole cinesi per il quale non si riesce mai a capire chiaramente quale sia l’opportuno interlocutore per le trattative o chi ha il potere decisionale (il presidente della cooperativa? Il direttore del personale del consorzio a cui afferisce? Il cda di tale consorzio? Oppure ancora l’ente committente a cui spesso questi soggetti rimandano?) ne viene fuori un disegno intricatissimo di isolamento dei lavoratori e complicate relazioni sindacali (laddove esistono).
Così è infatti nel mio luogo di lavoro, il CUP (centro prenotazioni) dell’Azienda Sanitaria di Venezia. Recenti confronti con delegati e funzionari che seguono le esternalizzazioni dei servizi amministrativi nella sanità pubblica in tutta Italia confermano un quadro desolante: lavoratori con elevate competenze e responsabilità accomunati da salari del tutto inadeguati (anche meno di 7 euro lordi all’ora) determinati da contratti “poveri” come quelli del Multiservizi o delle Cooperative Sociali, schiacciati da mansioni e mole di lavoro, fiaccati da una condizione di indeterminata precarietà.
Nella nostra realtà veneziana la lotta sindacale ha portato negli anni risultati non scontati, ma essi rimangono pur sempre non strutturali (es. buoni pasto) e legati all’esito della prossima aggiudicazione. Una contrattazione così realizzata, portata avanti da un’unica categoria nel singolo appalto sfilacciato tra più aziende e cooperative, difficilmente potrà essere opportunamente rivendicativa; essa anzi si comprimerà ciclicamente nella difesa per il mantenimento delle (insoddisfacenti) condizioni vigenti. Occorre quindi ripensare la nostra azione, estenderla e legarla ad altre realtà, creare piattaforme comuni e sinergiche con le altre categorie.
Bisogna attuare quanto la CGIL stessa sollecita ormai da anni: la contrattazione inclusiva.
Coordinamenti intercategoriali degli appalti nei siti o nelle filiere, coordinamenti regionali e nazionali dei medesimi servizi esternalizzati per individuare problemi comuni e scegliere obiettivi minimi da conquistare insieme, sono strumenti essenziali che devono essere messi in campo valorizzando e responsabilizzando anche il ruolo dei delegati.
Ma ancora potrebbe non bastare. Garanzie fondamentali come la “clausola sociale” devono acquisire una valenza incondizionata e tutelare non solo il posto di lavoro, ma anche retribuzione e diritti; devono diventare prassi comune universale e non in questo o quell’appalto, ma per arrivarci serve anche una decisa ed omogenea contrattazione confederale con la politica regionale e nazionale che non perda di vista il fine ultimo della (re)internalizzazione negli àmbiti pubblici.
Infine occorre superare l’ostacolo più ambiguo e contraddittorio, un intralcio tutto nostro: i “muri” che si creano tra le categorie. Ancora troppo frequentemente le categorie del sindacato somigliano a compartimenti stagni, impenetrabili, tra le quali collaborazione e sinergia sono spesso forzate o peggio assenti, in cui cavilli obsoleti e personalismi rischiano di intaccare la lotta stessa.
Dobbiamo recuperare la consapevolezza che da soli non potremo che limitarci a salvare il salvabile; che perdere l’opportunità di riunire i lavoratori è un’ulteriore spinta verso la parcellizzazione e l’isolamento.
La Filcams-CGIL e tutta la Confederazione nell’ultimo congresso hanno assunto un impegno gravoso che rimette in discussione la nostra prassi, che parla un linguaggio universale di diritti per tutti i lavoratori, che promuove un’autoriforma: se il nostro obiettivo è davvero ricomporre il mondo del lavoro e restituirgli diritti e dignità, allora praticare la contrattazione inclusiva e rinforzare l’azione confederale è davvero l’unica strada che ci resta da percorrere... insieme!