Il virus, esattamente come fa con il singolo individuo, è reo soprattutto di aver scoperto i punti deboli, di aver portato alla luce quei nervi già dolenti, i nodi al pettine di una moda che già non stava bene: troppa produzione, ricavi concentrati su alti numeri di vendita e grandi quantità trasportate da una parte all’altra del pianeta, un pianeta che non riesce più a sostenerla, non più a misura d’uomo ma a misura di capitale, adattata agli andamenti della borsa, con una tensione alla vendita che non si coniuga bene con i rapporti umani. Una moda ridondante che si ripropone ciclicamente e che muore al contempo, poiché essa ha sempre vissuto di cambiamento.
Persino Giorgio Armani si è scomodato ad aprile di quest’anno scrivendo una lettera alla rivista Women’s Weat Daily per mettere la lente di ingrandimento sulla velocità inconcepibile raggiunta da questo settore e sostenendo, al contrario, la necessità di un prodotto diverso, più legato alle stagioni e di maggiore durata. Dice Armani: “Il declino della moda è cominciato quando il segmento del lusso ha adottato i metodi operativi della moda veloce, imitando il ciclo di consegna senza fine di quest’ultimo nella speranza di vendere di più, ma dimenticando che il lusso richiede tempo, per essere raggiunto e apprezzato”. In fondo però noi parliamo di “moda low cost” e mi viene da citare Miranda Priestly ne “Il diavolo veste Prada” quando, in una scena del noto film, fa notare alla segretaria, che il pulloverino a basso a costo che lei indossa, è qualcosa di drammaticamente copiato e che tende sempre all’alta moda. Un “gergo popolare” di una lingua di riferimento.
Il settore della moda low-cost è quello che ha patito maggiormente la situazione creatasi dal Covid-19 questo perché i guadagni si fanno su grandissime quantità di abiti venduti e per rendersi conto della situazione di questo settore, basta dare un’occhiata al numero dei negozi che sono stati chiusi in tutti il mondo, il numero di dipendenti, soprattutto precari, che sono stati lasciati a casa. Ad abbassare le serrande durante la pandemia oltre 3.400 dei 5.062 negozi H&M, dislocati in più di 74 mercati nel mondo. H&M dichiarava, ad aprile, di aspettarsi enormi perdite nel secondo trimestre dopo aver registrato un calo del 46% nelle vendite di marzo sull’anno precedente. In effetti è andata esattamente come previsto. Sul sito internet ufficiale, simile in quasi tutti i paesi in cui il colosso ha dei negozi, oggi l’azienda mette al corrente della riapertura dei suoi negozi e delle norme adottate per la sicurezza dei suoi clienti e dipendenti. Tutto lentamente sembra ritornare alla normalità, ma saremmo dotati di poco senso critico se non volessimo controllare un pochino sotto la superficie di qualche notizia ben impacchettata e dall’interfaccia accattivante. Le cose sono cambiate e se non sono cambiate dovranno necessariamente farlo. Prima di tutto moltissimi lavoratori precari sono rimasti a casa. I negozi, non solo quelli di H&M, riaprono con un “kit di dipendenti minimo” più sostenibile per i bilanci complessivi dell’azienda. Il problema occupazionale quindi esiste ed è reso drammatico dal fatto che il Covid-19 sembra aver dato la spinta al processo di crescita dell’e-Commerce. Cambiano le nostre personali abitudini di acquisto di consumatori (già abbastanza affezionati alla logica di Amazon) e cambiano i modi di fare affari on-line; un aumento significativo delle vendite online che ha interessato il periodo post-covid in Italia comprendendo fasce di clientela che precedentemente non si servivano di internet per i loro acquisti, ma che, ad esempio, interessa oggi e moltissimo, paesi come la Francia e la Spagna, ancora in piena crisi, al punto da non escludere nuovi lockdown. Si parla di un 81% in più rispetto al 2019, secondo i dati indicati da Nielsen a marzo di quest’anno. Le aziende del Fast-Fashion hanno così una grande opportunità, servirsi della comunicazione, che si tratti di quella virtuale o di quella logistica, spostare su di essa gran parte dei propri investimenti e alleggerirsi il più possibile dei “costi umani”. Questo rischio non è nuovo ai sindacati italiani che con questo tipo di aziende trattano il problema da molti anni ma quello che fino all’anno scorso era una preoccupazione tra tante, una minaccia che fa capolino da dietro il tendone, adesso diventa una priorità assoluta, la prima voce in cima all’agenda. Un problema che oltretutto richiede una grande competenza, specie in un paese, quello Italiano, in cui non si è particolarmente “abituati” al lavoro in 5G e ancora si parla di Web 2.0, 3.0 e molti altri puntini che lasciano diversi dubbi. Si potrebbe concludere quindi che oltre a concepire un modo di vestirci e di commerciare più a misura d’uomo, più sostenibile e meno ansioso, ci vorrebbe, di contro anche un sindacato più vicino ai consumatori e ai lavoratori delle nuove generazioni. Eserciti armati di smartphone contro eserciti di precari che non godono più di quelle garanzie conquistate dalle generazioni precedenti e che anche nel caso di H&M, non è stato possibile salvaguardare. Il covid-19 non mente.
Fonti:
https://wwd.com/fashion-news/designer-luxury/giorgio-armani-writes-open-letter-wwd-1203553687/
https://www.nielsen.com/it/it/insights/article/2020/coronavirus-la-spesa-nella-gdo-rispecchia-le-nuove-abitudini-domestiche/