Da un governo Meloni che fa cassa tagliando pensioni, finanziamenti agli enti locali e aiuti alle famiglie più povere cancellando il reddito di cittadinanza, c’è da aspettarselo. Ma voler incassare 20 miliardi vendendo quote di Poste, Eni e forse Ferrovie, vuol dire andare avanti sul cammino intrapreso trent’anni fa dai governi dell’epoca: privatizzare quanto più possibile.
Dopo la prima privatizzazione con la quotazione del 2015, il Tesoro ha il 29,3% del capitale di Poste Italiane, e Cassa depositi e prestiti, spa pubblico privata con dentro le Fondazioni bancarie, il 35%. L’idea del governo è di vendere una cifra di poco inferiore al 20% della quota del Tesoro. Ma rinuncerebbe agli utili azionari, cospicui, di questa quota. Utili che in soli dieci anni, visto il rendimento medio delle azioni di un’azienda che ormai fa perlopiù servizi bancario-finanziari e assicurativi, pareggerebbero i 2,7 miliardi che Giorgia Meloni e il leghista Giancarlo Giorgetti vogliono incassare, per avere soldi freschi da destinare alle strategie politiche del governo Fd-Fi-Lega.
Anche per l’Eni, autentica caverna di Alì Baba visto il settore energetico di competenza, Meloni e Giorgetti vogliono vendere il 4,7% in mano direttamente al Tesoro, mentre il resto della partecipazione pubblica in Eni, pari complessivamente al 32,4%, è al solito di Cdp. In questo caso l’incasso sarebbe di 2 miliardi, e grazie al “buyback” la quota pubblica non dovrebbe calare. Ma, al solito, nel giro di pochi anni i mancati, lauti dividendi azionari pareggerebbero gli incassi di oggi. E, come nel caso di Poste, l’ingresso dei fondi nell’azionariato spingerebbe ad accrescere sempre più gli utili della società.
Caso a sé infine quello del Monte dei Paschi (un tempo) di Siena, nazionalizzato più che tardivamente nel 2017 per evitare un crack epocale, ma con l’impegno nei confronti dell’Ue di ri-privatizzarlo prima possibile. Negli ultimi cinque mesi, la cessione del 37,5% delle quote azionarie della banca, tornata in salute, ha permesso al governo di recuperare più o meno i 1,6 miliardi spesi nel 2022 per l’ultimo, ennesimo aumento di capitale. E una ipotesi corroborata da alcuni dati di fatto indica che il Tesoro, che al momento mantiene il 26,7%, potrebbe restare con una robusta seppur minoritaria quota pubblica, inferiore al 20%. In modo da passare l’esame della Commissione Ue, e al tempo stesso “marcare” in Mps il peso del governo Meloni sul territorio senese. E non solo.