Quando Ikea decise di avvalersi del decreto Monti sulla liberalizzazione degli orari di apertura, in qualità di rappresentante sindacale del negozio di Pisa venni convocato per ricevere la notizia che il successivo 25 aprile saremmo rimasti aperti.
Fino ad allora Ikea osservava 8 giorni di chiusura l’anno in occasione delle feste nazionali; dopo quell’incontro, soltanto 4. La cosa che più mi segnò fu però apprendere che, secondo i miei dirigenti, il lavoro nel festivo era obbligatorio e non volontario.
Sbagliavano, perché, anche se i contratti di assunzione recano la formula sulla disponibilità alla prestazione nelle domeniche e nei festivi, il CCLN del commercio allora vigente (oggi della grande distribuzione) stabilisce che nessuna trattenuta può essere operata nel caso in cui il lavoratore si astenga dal lavoro in occasione di un festivo: una sentenza del giudice di lavoro di Bari, che ha condannato Ikea a risarcire un lavoratore astenutosi in un festivo, ha sancito questo principio. Ma, al di là dei tecnicismi, sapevo dove si voleva arrivare.
Personalmente avevo già percepito la perdita del “valore sociale della festa” quando un giorno di lavoro come gli altri, il 2 giugno 2013, ricevetti la telefonata di mia sorella: mi chiedeva come mai non fossi a pranzo con il resto della famiglia per il cinquantesimo anniversario dei miei genitori. Cinquant’anni prima ci si sposava quasi tutti nei giorni di festa (in chiesa, ndr), perché tutti, approfittando del giorno libero, potessero riunirsi. Compresi di aver perso coscienza delle mie radici scegliendo di recarmi a lavoro come se fosse un giorno normale.
Spiegai allora a quei manager che ero contrario alle aperture indiscriminate e che, come minimo, dovesse essere riconosciuto ai lavoratori il diritto di scelta se lavorare o no: i miei dirigenti negarono. Alla fine, mi stancai e spiegai che da antifascista, e da membro della CGIL, consideravo il 25 aprile sacro. Pensavo a Bruno Buozzi, ai compagni che hanno fatto la resistenza nelle fabbriche, agli scioperanti del ‘43 e del ‘44 finiti in campo di concentramento (loro, sì, al lavoro coatto) e conclusi che non ne potevo insultare la memoria. Posi fine all’incontro, con quei manager dai weekend tutti liberi, annunciando che fino a quando non ci fosse stata riconosciuta la volontarietà, avremmo dichiarato sciopero, non soltanto per la Liberazione ma per ogni giorno rosso sul calendario.
Oggi conto 72 dichiarazioni di sciopero, ma vedere ancora fuori dai negozi i cartelli “25 aprile aperto” mi riapre la ferita. E non solo per chi oggi siede al Governo, costretto anzi a fare i conti per un giorno con il proprio passato, ma più in generale per i miei colleghi, indotti a disertare gli affetti, per compiacere la massa di consumatori che nei giorni festivi celebrano la propria libertà con lo shopping.
A dieci anni dal decreto Monti, mi chiedo a chi abbia giovato la formula del “sempre aperto”. Non ai lavoratori del commercio, che ad orari impossibili hanno visto aggiungersi precarietà, scarso salario e quindi più ricatti e meno sicurezza.
Non alle aziende della grande distribuzione, alcune costrette a chiudere o a ridimensionarsi, a partire proprio dalla portabandiera delle aperture indiscriminate Carrefour. Non alla nostra società, perché, senza festivi simbolici, si vede minare le proprie basi fondative, a partire dalle radici costituzionali e dal senso della loro conquista storica, simboleggiate proprio dalla Festa della Liberazione.
Chi ci ha guadagnato sono stati certamente i colossi dell’on-line, che hanno approfittato della compagna di sensibilizzazione dei consumatori invogliati nel fare acquisti sempre, senza coscienza delle ricadute sociali: per citarne una, la più in voga ora, il traffico non sostenibile generato da corrieri che consegnano e ritirano ordini e resi dappertutto.
Insomma, ci hanno guadagnato in pochi.
Come diceva Pasolini, l’omologazione che il fascismo non è riuscito ad ottenere, il potere dell’attuale società dei consumi l’ha ottenuto perfettamente. Per questo ho trovato liberatorio il gesto dell’ANPI di Firenze, che ha fatto rimuovere il cartello di apertura del 25 aprile di un centro commerciale che prometteva shopping “ai resistenti”. Per questo è da apprezzare l’iniziativa della FILCAMS-CGIL di Firenze che, scrivendo anche al Presidente della Repubblica Mattarella, è riuscita a far ritirare la vergognosa campagna pubblicitaria del Centro Commerciale “I Gigli” di Firenze.
La Resistenza oggi è anche questo: liberare il più possibile il tempo dal lavoro insostenibile, per non morire di indifferenza e non cedere alla dittatura del consumismo.