“Se continua a piovere si romperà la diga, quando si romperà la diga non avrò un posto dove stare”. L’antico blues su cui i Led Zeppelin realizzarono uno dei loro brani più belli e potenti, “When the levee breaks”, è iconica metafora di quanto sta accadendo sia nei campus statunitensi che in quelli europei, dall’Italia alla Francia alla Germania. La protesta degli atenei che chiedono la pace per la Palestina è diventata globale, e le istituzioni politiche rispondono invariabilmente calcando ancor di più l’elmetto sulla testa, ordinando migliaia di arresti di studenti, disarmati e nonviolenti, la cui unica colpa è quella di non dimenticare un’altra canzone entrata nell’immaginario collettivo, cantata da John Lennon: “Give peace a chance”, dai una possibilità alla pace.
Dopo sette mesi di massacri nella Striscia di Gaza con 35mila vittime perlopiù civili, senza dimenticare i 1.200 morti israeliani nell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre scorso e le altre centinaia di vittime palestinesi in Cisgiordania, la diga si è rotta. A frantumarla i continui bombardamenti sulla popolazione civile della Striscia, dove si scoprono fosse comuni negli ospedali, al Nasser di Khan Younis come allo Shifa di Gaza, con centinaia e centinaia di corpi dentro buste di plastica, molti legati, tanti uccisi da distanza ravvicinata, probabilmente giustiziati. Donne, bambini, anziani.
Negli Usa i campus ribollono di indignazione, da una costa all’altra: dalla Columbia all’ Ucla e l’Usc, fino agli atenei più “periferici” del Texas e dell’Arizona, gli studenti prendono posizione pacifista al pari dei loro coetanei francesi di Sciences Po, e di quelli italiani della Sapienza di Roma, della Normale di Pisa, di tanti altri luoghi di sapere disseminati lungo la penisola. Si piantano le tende, come hanno fatto gli universitari di Berlino davanti al Parlamento, e si sopportano le ingiustificabili reazioni delle cosiddette forze dell’ordine che su input del potere politico sgomberano, arrestano e manganellano chi chiede non certo la luna, solo il disinvestimento degli atenei dalle aziende del complesso militare industriale.
L’inconsulta risposta delle istituzioni e della politica, con l’ingresso della polizia e dell’esercito nei campus statunitensi come non avveniva dagli anni ‘60, fa osservare al corrispondente de ‘il manifesto’: “Sono soprattutto le convulsioni sugli atenei contro una sanguinosa guerra coloniale a schiacciare oggi il paese sul proprio passato. La repressione della libertà di espressione rimanda al free speech movement nato a Berkeley nel 1964 con le battaglie con la polizia e l’occupazione dell’edifico della presidenza, lo stesso Sproul Hall cinto oggi dal pacifico accampamento di solidarietà Free Palestine. Ora nel ’68 quel movimento, allargato ai diritti civili e contro la guerra in Vietnam, si era esteso a tutti college d’America, e alla Columbia avrebbe avuto alcuni degli scontri più aspri, quando nell’aprile di quell’anno la polizia fece più di mille arresti sul campus”.
Comunque gli studenti non si fermeranno: “Non si tratta più di cedere o meno - racconta sempre a ‘il manifesto’ Sarah, studentessa della New York University - si tratta di avallare o meno un genocidio. Io come studentessa ebrea mi oppongo. Non pensavo di diventare un’attivista, non ho mai preso parte a manifestazioni e movimenti prima, ma questa cosa mi riguarda in prima persona. A casa mia non sono felici di questo. Mia nonna ha 82 anni ed è molto preoccupata che mi possa accadere qualcosa, mi dice spesso, riferendosi all’olocausto, che ‘se è già successo può succedere di nuovo’ e che bisogna sempre difendere Israele. Io le rispondo che sono qui proprio per difendere Israele, da Netanyahu”.
Il patto d’acciaio Usa-Israele
Gli ultimi sondaggi negli Usa indicano che il 55% della popolazione ha forti dubbi sulla campagna di Gaza e l’infinita strage di civili, e solo il 36% si dichiara favorevole. Eppure il sostegno al governo Netanyahu continua. Sostegno a un primo ministro che dichiara testualmente: “L’idea di porre fine alla guerra prima di raggiungere i nostri obiettivi è inaccettabile. Noi entreremo a Rafah e annienteremo i battaglioni di Hamas presenti lì, per ottenere la vittoria totale”.
Sono parole che non lasciano dubbi sulle intenzioni di Tel Aviv di andare avanti con la carneficina. Né il governo israeliano si preoccupa delle indiscrezioni su un mandato d’arresto da parte della Corte penale internazionale dell’Aja per Netanyahu. Anzi il diretto interessato replica: “Nessuna decisione della Corte fermerà la volontà d’acciaio di Israele di raggiungere gli obiettivi nella guerra contro Hamas”. E contro due milioni di civili palestinesi, considerati né più né meno che dei fiancheggiatori. Quanto al presidente Usa, ecco cosa pensa Joe Biden: “Gli Usa non sono favorevoli all’indagine, poiché crediamo che la Corte penale internazionale non sia competente”. Del resto né Israele né gli Usa riconoscono la Corte dell’Aja.