Sul recente rinnovo dei contratti che la categoria ha sottoscritto con Confcommercio, Confesercenti, la Distribuzione cooperativa e la “Moderna” distribuzione organizzata si è aperta una riflessione che può favorire nella CGIL tutta in un avanzamento rispetto alla presa d’atto della assoluta mancanza di un quadro di riferimento confederale dopo il tramonto delle politiche concertative. Il quale ha coinciso con la più lunga crisi dell’assetto industriale del paese e con una crisi politica i cui esiti sono drammaticamente oggi sotto i nostri occhi.
Ci sono voluti decenni (e la parentesi ventennale del fascismo) perché si conquistassero i contratti collettivi di lavoro. Ci sono voluti quasi 20 anni perché la Costituzione varcasse la soglia dei luoghi di lavoro con lo Statuto dei Lavoratori. Ci sono voluti 30 anni per rimettere in discussione passo dopo passo le conquiste e gli avanzamenti della seconda metà del ‘900. La nuova generazione di quadri e militanti sindacali dovrà farne - prima o poi - un bilancio non accontentandosi più delle formulazioni congressuali che sono diventate, oggettivamente, più formule rituali destinate ad essere consumate nel breve arco di tempo che separa la stesura dei documenti congressuali da quello dell’apertura del congresso nazionale confederale piuttosto che punti fermi di analisi e di indicazione.
Conviene quindi, per così dire, ripartire dai fondamentali per una discussione di merito che abbia basi comuni. I contratti collettivi di lavoro sono il risultato di più fattori. Primo fra tutti la dinamica tra capitale e lavoro.
Il salario diretto e indiretto, i contenuti e le modalità della prestazione lavorativa, il tempo di lavoro sono in primo luogo determinati dalla rincorsa del salario verso il profitto, dal quadro legislativo nel quale la contrattazione collettiva s’inserisce e dei rapporti di forza tra padroni e lavoratori. Una crisi economica che si trascina ciclicamente tra alti e bassi ormai da 30 anni, la desertificazione industriale di ampie aree del paese, la terziarizzazione di larga parte delle attività economiche hanno contribuito a frammentare vieppiù la capacità dei sindacati di contrattare.
Oggi, ogni settore fa i conti con i rapporti di forza e manca una politica confederale - non sul piano della declamazione teorica, ma su quello della capacità di iniziativa concreta generale - in grado di imporre la dinamica salariale come elemento centrale dello scontro di classe. La battaglia per il salario minimo per legge e l’obbligo della contrattazione collettiva potrebbero essere un elemento di unificazione per un mondo del lavoro sempre più frammentato e diversificato nelle condizioni di lavoro e nei salari. Ma ancora non lo sono perché non sono patrimonio condiviso nel movimento sindacale. Basta pensare che siamo passati in CGIL - senza approfondimento alcuno - dalla contrarietà al salario minimo di legge alla sua accettazione con formule approssimative!
Ogni categoria è chiamata a battaglia settoriali, corporative, di salvaguardia. Eppure, con esiti diversi, ma con un cambio di segno positivo, si è ricominciato a firmare contratti collettivi e non solo nei settori nei quali il margine di profitto è ampio e la necessità di manodopera specializzata pure.
La firma dei CCNL del commercio è il risultato del ritorno della categoria alla lotta come strumento indispensabile per sostenere la contrattazione, nonostante la difficoltà di scioperare con successo nel settore ed è un segnale positivo.
La resistenza che ha opposto Federdistribuzione - prima di cedere - a siglare il contratto è il segnale che il padronato ha avvertito come una minaccia questa rinnovata capacità del sindacato nel settore dei servizi e della distribuzione.
Nel valutare i singoli accordi occorre tenere sempre presenti il testo e il contesto e, per quanto possa far inorridire chi ha un approccio naïf il sentirselo dire, il merito non costituisce necessariamente l’elemento decisivo di valutazione che è invece rappresentato da quanto la firma di un accordo determini la crescita politica e organizzativa del sindacato (o ne impedisca l’indebolimento) non solo rispetto alla controparte padronale, ma soprattutto tra e con i lavoratori.
Per questo il sindacato deve privilegiare la difesa del contratto collettivo di lavoro e delle sue norme valide per tutti i lavoratori , non solo per equità, ma soprattutto per affermare la necessità dell’unità di classe.
Quando in una vertenza sindacale si vince, tutto va bene. I risultati vanno “messi in cascina” utilizzando la forza acquisita per far crescere il consenso organizzato, le adesioni e la rappresentanza sindacale aziendale, ma quando si perde comunque ci sarà un indebolimento e un discredito del sindacato a tutto vantaggio del padrone. I demagoghi che contrabbandano rese e sconfitte per vittorie fanno un cattivo servizio al sindacato e ai lavoratori. Anche quelli che criticano e promettono soluzioni impossibili sono demagoghi.
Negli ultimi anni ci siamo abituati ad usare la formula “l’accordo contiene luci ed ombre”. È meglio usare un linguaggio più esplicito che indichi i punti deboli (o i passi indietro) di un accordo, ma che ne esalti i punti positivi. Nel caso dei contratti della distribuzione il punto dirimente è la riconquista - con la lotta e l’organizzazione! - della potestà contrattuale del sindacato in un settore che ha subito e subisce tutte le conseguenze della precarizzazione della condizione lavorativa; una riconquista fatta in assenza di regole condivise.