“Gaza, odio e amore per Israele”: un libro di Gad Lerner
Il pogrom di Hamas del 7 ottobre, il sequestro di circa 250 tra civili e militari, la risposta criminale di Netanyahu hanno provocato reazioni diverse e contrastanti all’interno del mondo ebraico fuori da Israele. Alla reazione pressoché compatta delle istituzioni ufficiali, appiattite in un appoggio incondizionato, ha fatto riscontro una mobilitazione per il cessate il fuoco e contro i bombardamenti a tappeto su Gaza. Il cuore di queste proteste si è verificato negli Stati Uniti, ma tantissime manifestazioni si sono svolte in tutto il mondo.
Nel nostro Paese sono state numerose le prese di posizione: la più conosciuta e autorevole le decine di firme sotto l’appello “Voci ebraiche per la pace”. Tra queste, una figura di spicco del giornalismo democratico e del mondo ebraico italiano: Gad Lerner, che dopo il 7 ottobre su “Il Fatto quotidiano” ha scritto numerosi articoli di forte critica del governo israeliano.
La Feltrinelli ha ora pubblicato un libro di Lerner intitolato: “Gaza”, sottotitolo “Odio e amore per Israele”. Si tratta di un testo importante in cui l’autore alterna considerazioni di carattere generale, a riferimenti autobiografici.
Gad è l’espressione di quegli ebrei di sinistra che, pur auspicando una giusta soluzione al secolare conflitto, che riconosca il diritto dei palestinesi ad avere un proprio Stato, nello stesso tempo rivendicano il proprio amore per Israele la cui nascita nel 1948 ritengono giusta ed indispensabile.
Gad spiega il suo profondo legame con Israele perché per i nonni, originari di Boryslaw, località nella regione di Leopoli che scamparono alla Shoah emigrando come tanti ebrei in quei territori dove anni dopo nacque il nuovo stato, significò la salvezza. E in Israele, Lerner ha figli, cugini e nipoti, come del resto molti ebrei della cosiddetta diaspora (ed io tra loro).
Lerner si definisce “sionista” seppur “critico”. Le critiche evidenziano le scelte nefaste della destra israeliana, in particolare da quando nel panorama politico nazionale è emerso Bibi Netanyahu che con cinismo e spregiudicatezza, nonostante le numerose inchieste giudiziarie, crisi di governo e crescente dissenso fino alle proteste prima del 7 ottobre per la riforma della giustizia, è riuscito a rimanere sempre in sella, fino a formare l’attuale esecutivo con dentro l’estrema destra fondamentalista e reazionaria.
Lerner si sofferma anche sulla mutazione profonda che ha avuto il sionismo israeliano, con il graduale venire meno della generazione pioneristica che fece dell’esperienza collettivista e socialista dei kibbutz l’asse portante nel fondare il nuovo stato, per lasciare posto ad un modello sempre più neoliberista e ad un cambiamento demografico con flussi migratori, in particolare dagli Usa e dalla Russia, che ne hanno mutato il volto, le basi sociali, culturali ed economiche.
Ma ci sono alcuni aspetti della narrazione proposta su cui dissento. Gad rifiuta la definizione di colonialismo, ma la migrazione ebraica, migrazione certamente provocata dei pogrom verificatesi nell’Europa orientale, oltre che dalla nascita del movimento sionista nell’agosto 1897, in particolare in Russia, si pose sin dalle sue origini in un’ottica coloniale e militare. Ricorda lo stesso Lerner che solo una percentuale del flusso migratorio scelse quella che era considerata la terra degli avi.
Sholomo Sand ne “L’invenzione del popolo ebraico” ha smontato l’impalcatura che sostiene tutta l’ideologia messianica del sionismo, anche nella sua versione di sinistra. Anche il “progressista” Ben Gurion amava riunire un cenacolo di amici, leggere e commentare la Bibbia! Così come parlare di un “Rinascimento ebraico” a fronte di una oppressione permanente dei palestinesi ci sembra discutibile. È vero che Israele ha vissuto una pesante involuzione da molti punti di vista, ma, come rileva lo stesso Lerner, non ci può essere un “paradiso”, se a pochi chilometri c’è l’inferno.
Definire Israele una democrazia è sbagliato, perché il suo etnocentrismo non si dispiega solo dopo la modifica costituzionale del 18 luglio del 2018, quando la Knesset ha approvato la legge che definisce il Paese “La casa nazionale del popolo ebraico”, ma è alla base della sua fondazione e definirlo “Stato binazionale” non trova riscontro nella realtà: sono note le discriminazioni che colpiscono la popolazione araba residente all’interno dei confini. Lo stesso Lerner ricorda la bella e fondamentale intervista da lui fatta a Primo Levi nel 1984, a due anni dalla guerra in Libano e dalla strage di Sabra e Shatila, nella quale l’illustre intervistato sottolineava la necessità che il baricentro dell’identità ebraica si spostasse da Israele alla diaspora, in quanto rappresentativa dell’universalismo ebraico, in contrasto con la logica nazionalista. Se nel libro giustamente si evidenzia le differenti correnti presenti sin dalle origini del sionismo, credo che i frutti amari dell’identitarismo lo abbiano caratterizzato sin dall’inizio.
Mi tornano in mente quel che Hannah Arendt scrisse a Gershom Scholem, il 24 luglio del 1963. La grande intellettuale rispondeva di non amare “nessun popolo o tipo di collettività” e inoltre essendo “io stessa ebrea l’amore per gli ebrei mi sembrerebbe qualcosa di sospetto”. L’amore per la Patria storicamente ha provocato dei bei disastri ed è spesso l’anticamera per i peggiori nazionalismi…
“Gaza” è un testo sicuramente bello per la passione che lo contraddistingue, interessante per le informazioni che fornisce, anche di carattere storico ai meno esperti e onesto dal punto di vista politico. Gad, come fatto più volte anche in questi mesi, ribadisce la necessità di una soluzione al drammatico conflitto. Lo fa non in quanto “ebreo buono” ruolo che rifiuta, ma in quanto intellettuale di spessore, profondo conoscitore di tutta la vicenda storica, persona che continua a fare la spola con il Paese dei suoi avi. Soluzione che nell’esaminare tutte le proposte da tempo sul tavolo, due Stati, uno Stato binazionale, riprende quella evocata mesi fa da un caro compagno della nostra generazione, Guido Viale, che ha individuato nel federalismo democratico dal basso, sull’esempio del Rojava curdo, il progetto che potrebbe mettere fine al conflitto, passando attraverso un processo di riconoscimento riconciliatorio come in Ruanda e Sud Africa.