Giugno è il mese dei Pride. E’ il momento che da voce e visibilità alle istanze di libertà, autodeterminazione, inclusione e uguaglianza della comunità lesbica, gay, bisessuale, trans, intersessuale e a tutte quelle soggettività che non si riconoscono nel binarismo di genere (LGBTQI+).
Il Pride è da sempre una manifestazione di orgoglio e consapevolezza, in cui ogni persona, nella propria identità, si unisce agli altri per il bene di tutta la comunità.
Ogni anno, dal 1994, in Italia si svolgono dai 20 ai 30 Pride, sia in grandi che in piccole città.
Nel proseguimento di una lotta iniziata con coraggio, nella notte del 28 giugno 1969 allo Stonewall Inn di New York, sempre maggiori comunità e singoli individui scendono nelle piazze e nelle strade di tutto il mondo, colorandole e animandole con simboli di resistenza, lotta e desiderio di autodeterminazione.
Il Pride non è una manifestazione in punta di piedi che non mette in discussione nulla.
Il Pride è espressione innanzitutto di libertà e per farlo utilizza anche l’aspetto gioioso della parata, con tutti i suoi eccessi colorati e trasgressivi che richiamano sia le gesta delle drag queen che diedero il via ai Moti di Stonewall, sia il carnevale, con il suo portato liberatorio ed egualitario.
Per questo respingo la retorica della sobrietà e del decoro, che da sempre domina le polemiche attorno ai Pride, ritenendola uno strumentale tentativo di controllo della libera espressione di genere, da parte di una società ancora fortemente patriarcale e eteronormativa.
Nessuno può reprimere e controllare i nostri corpi, distinguendo modalità più consone di stare nel corteo.
Il punto è l’autodeterminazione di ogni soggettività.
Se partiamo da ciò, i Pride non possono che essere declinati esclusivamente in un’ottica intersezionale, evidenziando le interrelazioni tra “oppressioni” e lanciando una grande sfida ossia quella di creare una rete pronta ad abbattere muri e confini, a mettere in correlazione discriminazioni e, come si legge nel manifesto di Rumore Pride di Ferrara, “a cogliere dalla diversità di differenti lotte uno spunto per arricchire le prospettive e la qualità della militanza”.
Deve essere pratica politica da preservare e rilanciare che interessa anche il Sindacato.
Non è semplice, ma come ci ha insegnato Michela Murgia, “abitare la contraddizione è il metodo che include”.
Smascherare il Rainbow Washing di chi promuove slogan, aziende, Stati “friendly”, senza condividere principi di equità e inclusività, significa, ad esempio, intrecciare la lotta dei diritti civili con quella per l’autodeterminazione del popolo palestinese, in barba alle bandiere arcobaleno che Israele issa sulle macerie e i cadaveri di Gaza.
Significa denunciare aziende che usano i simboli della comunità Lgbtq+ per dare l’impressione di allinearsi con la comunità stessa e contestualmente violano i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici oppure non sono ambientalmente sostenibili.
Significa valutare se dietro il sostegno legittimo ad una comunità ci sia il rispetto di altre soggettività.
La lotta di classe è lotta di classi!!!
Riscopriamo nella lotta dei diritti il nostro orgoglio, la nostra storia, consapevoli di quanta altra strada abbiamo da percorrere, insieme.