Il modello contrattuale e le leggi sul lavoro
I modelli contrattuali e la restrittiva e perversa legislazione sul mercato del lavoro sono tra le ragioni dell’arretramento del mondo del lavoro e della perdita di salario contrattuale.
I modelli contrattuali che hanno segnato la contrattazione sindacale di primo e secondo livello sono sostanzialmente due: il primo, quello del 23 luglio 1993, il secondo quello del 22 gennaio 2009 (cosiddetto “accordo separato” non sottoscritto dalla CGIL, ma ancora operante).
Ambedue questi modelli hanno, nei fatti, predeterminato la riduzione dei salari.
L’accordo del 23 luglio 1993 riguardo alla funzione salariale del CCNL, stabilì che esso doveva “salvaguardare il potere di acquisto delle retribuzioni”. Veniva per così dire stabilita l’“invarianza dei salari” che avrebbero dovuto rimanere entro il valore reale che essi avevano in quel momento al riparo però dai danni delle spinte inflattive.
Questa funzione sarebbe stata raggiunta con il meccanismo della cosiddetta “inflazione programmata” stabilita al Ministero del Tesoro con le parti sociali, sulla base della quale calcolare gli aumenti contrattuali. Ogni due anni, inoltre, si sarebbero fatti i conti con l’inflazione reale e, a seconda della corrispondenza o meno, si sarebbero adeguati i rinnovi economici successivi. La contrattazione di secondo livello avrebbe potuto contrattare gli eventuali aumenti di produttività per andare oltre la salvaguardia del potere di acquisto delle retribuzioni. Non fu così.
Chi allora si opponeva a quell’accordo, come noi della sinistra sindacale (si era formata nel 1984 “Democrazia consiliare” - la prima area programmatica della storia della CGIL - e nel congresso del 1991 per la prima volta in un congresso confederale era stato presentato un documento alternativo, “Essere sindacato”) denunciava il fatto che per tutelare il potere di acquisto delle retribuzioni era molto più efficace la scala mobile, essendo la contrattazione di secondo livello realizzata solo nel 20% delle unità produttive, in un paese nel quale la maggioranza dei lavoratori era impiegata in aziende sotto i 15 dipendenti, senza presenza di strutture sindacali organizzate e tutele adeguate, e senza la protezione dell’articolo 18.
Nei fatti, con l’accordo del 23 luglio si predeterminava il “congelamento” della dinamica salariale rispetto ai profitti.
Dopo l’abolizione della scala mobile del 92 e l’accordo nazionale della “politica dei redditi” del ‘93, furono fatte leggi e riforme pesanti nei confronti del lavoro: la riforma Dini (1995) del sistema pensionistico, con il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, poi il “Pacchetto Treu” (1997) sul mercato del lavoro, che eliminò il collocamento pubblico e introdusse il lavoro interinale, oggi somministrato. Da allora la sequenza di leggi sul mercato del lavoro e sulla contrattazione, in assenza di una legge sulla rappresentanza e la rappresentatività delle parti sociali, ha determinato sia l’esplosione della precarietà che la conseguente povertà salariale.
Possiamo affermare che tra le cause dei tanti accordi pirata fatti dalle organizzazioni padronali con sindacati corporativi e di comodo, ci sia anche l’assenza di una legge su rappresentanza e rappresentatività.
Le leggi successive, il “pacchetto Treu”, la “riforma Biagi” (2003), “l’art. 8 della legge Sacconi” (2011), la “legge Fornero” (2012), il “Jobs Act” (2014 e i seguenti Dlgs del 2015, 2016, 2017), il “decreto dignità” del primo Governo Conte (2018), hanno seguito un’unica ideologica filosofia di fondo, quella del modello nord-europeo della Flexsecurity.
L’idea di fondo era che globalizzazione e rivoluzione tecnologica avevano cambiato il mondo e che il modello novecentesco del posto fisso, dei diritti nel lavoro, dei “lacci e lacciuoli”, dello Statuto dei lavoratori, dell’articolo 18, non poteva competere nel mercato globale.
Molte le leggi e i decreti contro il lavoro fatti dai vari governi, di centrodestra, di centrosinistra o cosiddetti tecnici e di unità nazionale, che hanno prodotto 40 e passa forme di lavoro precario in ingresso, l’abolizione di un pilastro di difesa della dignità delle persone come l’art. 18, la soppressione dei diritti, l’esplosione di lavori marginali, manuali e di cura non valorizzati, di salari poveri, spianando la strada a chi crede ideologicamente nella centralità del mercato e del profitto confidando nella capacità autoregolatrice del sistema capitalistico.
Nel documento unitario del XV congresso CGIL del 2006 e nella relazione del Segretario generale Guglielmo Epifani si ribadivano le scelte e le mobilitazioni degli ultimi dieci anni della CGIL contro le derive ultraliberiste del governo Berlusconi e, pur non disconoscendo il valore generale della politica dei redditi degli anni 90 e degli accordi nazionali, si prendeva atto che i salari non erano cresciuti e che i 4/5 della ricchezza prodotta erano andati in direzione dei profitti e delle rendite e che non esisteva nessuno sviluppo industriale. Era una politica che non aveva dato i risultati sperati dal mondo del lavoro.
Vennero individuati negli attori pubblici e privati i principali responsabili del fallimento e si indicava una nuova linea rivendicativa: ora si trattava di riportare al centro la questione salariale, di “riprogettare il paese”, lo sviluppo industriale nel nuovo contesto internazionale del lavoro.
Da allora siamo in mezzo al guado. Per studiare queste dinamiche e analizzare la realtà, forse occorre tornare alla moderna lotta di classe e a quanto scriveva Karl Marx quasi due secoli fa: “Tutta la storia dell’industria moderna mostra che il capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e senza misericordia per precipitare tutta la classe a questo livello della più profonda degradazione”.
[Il testo del presente articolo, così come quello della prima parte, sono stati estrapolati e rielaborati dai materiali preparatori della discussione con la quale il coordinamento nazionale dell’aggregazione confederale di Lavoro Società intende contribuire al rafforzamento della linea di lotta e di mobilitazione in cui è impegnata tutta la CGIL. Ricostruire la nostra storia aiuta a capire perché oggi – non ieri – sia giusto rivendicare il salario minimo e insistere – come e più di ieri – sulla legge sulla rappresentanza e mantenere il CCNL nazionale di categoria come autorità salariale normativa che ripartisce le quote di ricchezza prodotta, riconosce il valore del lavoro e le sue specificità di comparto e di qualifica, superando l’impianto degli accordi del 1992/1993]