Modello unico contrattuale: chimera o araba fenice? - di Andrea Montagni

Nel 1993 l’accordo tra CGIL, CISL e UIL, Confindustria (cui si associarono successivamente le altre organizzazioni padronali italiane) e il Governo (il presidente del Consiglio era Ciampi e la maggioranza era costituita da DC, PSI, PSDI, PDS, Verdi e Alleanza democratica) aveva come obiettivo di affidare ai contratti collettivi nazionali - supportati dalla politica dei redditi da parte dei governi - l’invarianza del valore reale delle retribuzioni, salvo l’incremento determinato dagli inquadramenti di qualifica e i passaggi di categoria, ponendo come limite minimo e massimo degli aumenti contrattuali nominali il tasso d’inflazione programmata e il suo conguaglio eventuale a posteriori ed individuando nella contrattazione collettiva di secondo livello (aziendale o territoriale) la possibile ripartizione di quote di produttività che avrebbero accresciuto i salari reali. Alla definizione del modello contrattuale seguì l’accordo sulla rappresentanza (firmato da Confindustria) che rendeva le RSU elettive soggetti della contrattazione collettiva di secondo livello.

Era un patto neocorporativo che aveva nella politica (il Governo) il garante. E fu il garante, incapace di applicare (in tutte le sue versioni di destra e di centrosinistra o di unità nazionale) la politica dei redditi, che venne meno agli impegni e manomise nel corso degli anni la legislazione del lavoro riducendo sempre più il patto ad un accordo tra soggetti privati, privo di efficacia reale erga omnes, a portare colpi al “modello”.

La crisi dei rapporti unitari tra CGIL, CISL e UIL e il fallimento dei tentativi da parte sindacale di rimettere mano al patto stesso - per restituire ai CCNL una autorità salariale e al contrario la determinazione da parte padronale di impedire qualsivoglia aumento reale dei salari e addirittura di non farli nemmeno stare al passo con l’inflazione reale - hanno trasformato il modello unico contrattuale in un’araba fenice. La fine dell’egemonia di Confindustria sull’insieme delle associazioni padronali, comprese le sue federazioni di categoria, ha fatto il resto.

Ci sono le condizioni per un nuovo patto neocorporativo che riconosca le parti sociali e affidi loro la definizione di regole universali sulla contrattazione e la rappresentanza? Il governo potrebbe esserne il garante sostenendo la contrattazione collettiva, mentre fino ad oggi tutti i governi, a partire dal primo governo Berlusconi, hanno sempre più favorito il rapporto unilaterale tra datore di lavoro e dipendente? Possono i sindacati confederali continuare a riconoscere a Confindustria un ruolo egemone nel fronte padronale a fronte di una frammentazione della rappresentanza di parte datoriale, mentre anche il governo appare più attento a garantirsi il consenso dei singoli gruppi multinazionali, del mondo finanziario e a conquistare il sostegno delle organizzazioni dei settori primario e secondario?

Questa riflessione non mi porta a sostenere la tesi, priva di fondamento nella dottrina economica, che l’Italia possa mantenere il suo livello di ricchezza e i suoi standard passando da una economia trainata dalla produzione industriale (sia materiale che immateriale) ad una basata sul settore primario e sul turismo. Lasciamo questa chimera alle farneticazioni dei Lollobrigida e delle Santanché…

Invece di illuderci di difendere nelle condizioni attuali un modello contrattuale universale, o teorizzare tanti “modelli” a seconda delle controparti, è più urgente definire una linea sindacale confederale, condivisa tra confederazione e categorie, sulla contrattazione che si basi sulla rivendicazione di un salario minimo indicizzato per legge, la centralità dei CCNL come autorità normativa e salariale, la loro riduzione nel numero e sull’estensione della contrattazione di secondo livello.

Occorre rivitalizzare il rapporto organizzativo tra dipartimenti confederali e categorie per consentire alle singole categorie - cui spetta la titolarità contrattuale - di governare la frantumazione delle organizzazioni di rappresentanza padronale, che produce a volte moltiplicazione dei tavoli contrattuali e richieste di inserimento di settori già presenti in altri contratti e di figure professionali identiche con salari diversi a parità di qualifica in CCNL diversi. Un problema che ha già creato problemi tra i sindacati del terziario (commerciale, finanziario, istruzione) ma anche tra quelli del terziario e dell’industria.

Nel 1993, quando votarono 1.327.290 lavoratori e si raggiunsero il 67,05%, di sì all’intesa, noi di Essere sindacato, la corrente di sinistra della CGIL, eravamo convinti che la politica dei redditi fosse una illusione, ma non sapemmo spiegarlo ai lavoratori.

La pratica contrattuale non può negare la lotta di classe come fondamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro. Se non hai a cuore la lotta di classe, se non ne riconosci la natura inconciliabile, non puoi governare le contraddizioni determinate tra i lavoratori da rapporti di forza diversi, da margini di profitto e quote di produttività diverse tra settori di lavoro e non puoi più ricondurre a sintesi gli interessi dei lavoratori facendo dell’unità di classe -anche sindacale - la meta dell’attività sindacale, mentre esercitiamo il compito primario di contrattare.

Non molliamo le RSU: sono allo stesso tempo fondamento dell’unità sindacale, oggi così lontana, lo strumento democratico di verifica della rappresentanza delle OO.SS. e una formidabile e insostituibile scuola di formazione sindacale nella prassi quotidiana. Hanno il pregio di sottoporre il sindacato, attraverso i suoi delegati eletti, al giudizio spesso impietoso dei lavoratori che sono come sono e non come li vorremmo. Il loro consenso non è scontato. Va conquistato!


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