In questi mesi di crisi acuta dovuta alla pandemia le norme emesse dal governo, alla indispensabile regolamentazione degli ammortizzatori sociali, hanno accompagnato il divieto di licenziamento.
Questo divieto è stato modificato con l’ultimo decreto, il 104 del mese di agosto, nel quale, all’articolo 14, si ridefinisce la normativa sui licenziamenti. Il testo di legge recita che è possibile licenziare “nelle ipotesi di accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative e a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo.” Oltre alla fattispecie connessa alla definizione dell’accordo sono previste deroghe al divieto di licenziamento nel caso di cessazione definitiva delle attività, fallimento o messa in liquidazione dell’impresa.
Questa normativa supera, provvisoriamente, le disposizioni di legge che abbiamo utilizzato in tutti questi anni. La procedura di licenziamento (223/91) e tutto l’impianto sui licenziamenti individuali non determinano paletti normativi che mettano a disposizione dei lavoratori, e delle organizzazioni sindacali che li rappresentano, strumenti di tutela forti. Infatti nelle procedure di licenziamento non viene espresso un obbligo alla sottoscrizione dell’accordo, che viene considerato una previsione possibile, auspicabile e stimolata anche da penalizzazioni economiche, ma non certa e obbligatoria. Nei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo viene addirittura predeterminata (per tutte le assunzioni recenti) la cifra economica di risarcimento al lavoratore, con l’esplicito permesso di regolare la propria flessibilità di organico, utilizzando lo strumento dei licenziamenti.
La formulazione che ha determinato la nuova norma è chiaramente più stringente e apre a un ruolo più rigido della contrattazione, rafforzando il principio della volontarietà espressa dai lavoratori.
In questo modo si tenta di limitare il potere aziendale ponendo un argine a un pericolo concreto.
In questi mesi di pandemia tre elementi hanno rappresentato gli argini primari al crollo del sistema lavoro: lavoro remoto, ammortizzatori sociali e divieto dei licenziamenti. Il lavoro in remoto sta imponendo una nuova modernità che ha accelerato i processi di innovazione dell’organizzazione del lavoro. Gli ammortizzatori sociali hanno contenuto gli effetti economici della crisi sulle persone. Il divieto di licenziamento ha impedito che comportamenti impropri, di imprenditori senza scrupoli, utilizzassero la crisi sanitaria per “liberarsi” di lavoratori indesiderati.
Su queste modifiche normative si sta aprendo un ampio dibattito: questa crisi non lascerà le cose come prima e alcune di queste novità dovranno essere parte del nostro futuro. Servirà evolvere la regolamentazione sul lavoro in remoto, sia dal punto di vista normativo che contrattuale. E’ necessario ragionare su una forma di sostegno economico permanente, e non più in deroga che accompagni le persone di fronte a un lavoro oggi più precario di qualche tempo fa. Servirà rafforzare una normativa sui licenziamenti che imponga meno disinvoltura, sostenuta dal pulpito della flessibilità e della modernità a senso unico, nelle scelte padronali.
Appare chiaro che nessuna norma può garantire certezza di comportamenti: molte volte infatti assistiamo a processi di espulsione di lavoratori dalle imprese, certificati da accordi che parlano di volontarietà, ma in cui di volontario esiste poco. Anche in queste settimane ci sono state situazioni pesanti e poco limpide. Pensiamo a sedi di lavoro chiuse con trasferimenti di lavoratori a distanze impossibili da accettare e conseguente scelta di abbandonare il lavoro. Abbiamo assistito a lavoratori a cui era stato promesso un incentivo all’esodo, a fronte della soppressione della propria mansione, che però aveva una scadenza che “probabilmente a gennaio casa madre non ci metterà più a disposizione.” Che tipo di volontarietà è questa. E’ una scelta forzata sulla base di dichiarazioni e informazioni che il lavoratore non poteva verificare e sulle quali il funzionario sindacale ha dovuto discutere. In casi simili il concetto di volontarietà non esprime una scelta libera ma una decisione legata ad alternative difficili, in cui spesso l’accettazione della risoluzione del rapporto di lavoro, con conseguente uscita incentivata, è la soluzione migliore che il lavoratore si trova costretto a valutare (sarebbe corretto definirla: “la meno peggio”).
Ma oltre a queste situazioni fortemente negative è capitato anche di assistere a società multinazionali che hanno preferito bloccare processi di ristrutturazione perché non dimostrabili e non sostenibili dialetticamente, evitando un confronto con il sindacato e i lavoratori che non avrebbero mai permesso tali licenziamenti.
Nella contraddizione della pratica quotidiana la percezione è che una norma come l’attuale possa aiutare nella definizione dei processi organizzativi e nella definizione degli organici: non più aperta alla semplice valutazione aziendale e alla nostra capacità negoziale, ma orientata da una norma che esprimendo il principio forte dell’obbligo all’accordo vincola le aziende a una più chiara e corretta definizione dei problemi e della necessità di licenziare.
Se nel dopo Covid saremo capaci, come sindacato di influenzare le scelte politiche la discussione sulle modifiche legislative alle norme sui licenziamenti dovrà ancora (come è stato in questi anni) essere posta al centro delle nostre argomentazioni, perché in questi anni troppo forte e squilibrato è stato il dibattito sul concetto della flessibilità. Una flessibilità che le imprese considerano in una sola direzione: di tutela del patrimonio di formazione offerta ai lavoratori qualificati, e quindi da bloccare nel loro potere contrattuale, e nella libertà di gestire a proprio uso e consumo quelli meno qualificati sui quali gli investimenti sulla formazione sono stati meno ingenti. La libertà di licenziare come primario strumento regolatore delle dinamiche produttive ed economiche in mano alle sole imprese: inaccettabile.