è noto che la pandemia ha determinato l’esplosione del lavoro da remoto – in inglese smart working. Fiumi di inchiostro sono fluiti per analizzarne pregi e difetti, e tutti hanno notato che con i decreti emanati dal Governo è stato rimosso l’accordo individuale per darvi vita. Ma nessuno – che io sappia – ne ha tratto la conseguenza per così dire “inversa”: se è necessario l’assenso individuale, che rapporto ha questo “contratto” con la regolazione collettiva? La risposta, brutalmente, è: nessuno, o almeno, molto molto labile.
Andiamo a vedere i testi: lo smart working in Italia si chiama “lavoro agile” e viene regolamentato nel 2017 con la legge 81 (articoli 18-23). Viene definito “quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa”.
Per i lettori della Filcams, il parallelo immediato è con un altro rapporto individuale ben noto – il part-time. Anche in questo caso, per disciplina comunitaria, sono le parti individuali a sottoscrivere il rapporto di lavoro. Dove sta la differenza, allora? Sta in questo: la legislazione sul part-time rinvia espressamente alla contrattazione tutto ciò che riguarda l’attribuzione a quel lavoratore (lavoratrice) dei diritti e degli obblighi connessi al rapporto di lavoro, lasciando alle parti individuali esclusivamente la facoltà di stipulare le cosiddette clausole elastiche e flessibili, prevedendo peraltro che la contrattazione collettiva già predisponga in quel caso le relative compensazioni e regolazioni applicative. Invece, nel caso del lavoro agile, l’unica certezza normativa è che il rapporto è di tipo subordinato, e che il trattamento economico e normativo “non sia inferiore” a quanto previsto dalla contrattazione collettiva...con qualche sbavatura. Ad esempio, i tempi del preavviso sono definiti dalla legge, senza tenere conto della contrattazione collettiva. Oppure la retribuzione variabile è sì sgravata previdenzialmente e fiscalmente come per i lavoratori “normali”, ma come la si debba coordinare ad esempio con premi costruiti secondo parametri di presenza è lasciato impregiudicato. Ugualmente, la legge rinvia all’accordo individuale riguardo a temi delicatissimi, quali l’esercizio datoriale dell’aspetto disciplinare, o riguardo alla coerenza con le disposizioni su salute e sicurezza delle attrezzature di comunicazione impiegate dal lavoratore agile.
Molto si è detto, in questi mesi, sulla necessità di “riportare lo smart working nell’ambito della disciplina contrattuale”, sottintendendo che finita l’emergenza si debba riprendere l’applicazione della disciplina precedente; ma il punto è proprio questo: riportare nell’ambito contrattuale una fattispecie che la legge pone al di fuori è esercizio analogo al rimettere nel tubetto il dentifricio uscito!
A meno che – è questa è davvero la sfida del prossimo futuro – non si riapra una discussione sui fondamenti del lavoro agile, riportandone la costituzione e la disciplina nell’ambito della contrattazione collettiva. Ma per fare questo occorre modificare proprio la previsione di legge.
E una volta fatto questo, un ragionamento sul lavoro agile non può che uscire dalla dimensione individualistica, perché da ultimo l’esperienza ci ha mostrato come sia la stessa organizzazione del lavoro a dover essere ripensata a fronte di un numero significativo di persone la cui prestazione si dovesse svolgere da remoto. E allora il vero punto critico sarà misurarsi con la qualità delle imprese e sulla loro adeguatezza a gestire forme di lavoro così “flessibili”. E si tratterà allora di mettere con i piedi per terra la tematica delle forme di “partecipazione” dei lavoratori, perché è evidente che si dovranno ripensare le forme e le modalità con cui le persone si possano continuare a sentire “parte” di un’impresa (e colleghi) che frequentano molto meno. E non è neppure finita qui, perché diverse colonne della contrattualistica dovranno essere oggetto di ripensamento, in primis l’orario di lavoro. Perché se è vero che stiamo parlando di lavoro subordinato, è evidente che un limite orario deve esserci, ma il pregio (o l’ambiguità) del lavoro da remoto sta proprio nella variabilità possibile del tempo della prestazione; il che ha già determinato, come da diverse indagini svolte in questi mesi, un possibile sovraccarico di lavoro (specie per le donne, sovraccaricate dai vincoli famigliari), proprio per effetto della variabilità di cui sopra. Di qui il famoso “diritto alla disconnessione”, ma anche – direi – la necessità di regolare il nastro orario al cui interno prevedere lo svolgimento della prestazione. In ultimo una conseguenza paradossale: lo straordinario (o il lavoro supplementare del part-time). La disciplina contrattuale dice che sia solo il datore di lavoro a poterlo chiedere e il lavoratore a doverlo eseguire se nei limiti del tetto stabilito contrattualmente (ferma restando la volontarietà in caso di supplementare): e se invece in caso di smart working si pensasse ad un’inversione, che cioè sia il lavoratore agile a poterlo chiedere e il datore di lavoro ad autorizzarlo?
Tralascio per brevità altre tematiche, prima fra tutte l’esercizio dei diritti sindacali, o una nuova possibile stagione dei premi di risultato, o ancora l’esercizio effettivo del diritto alla formazione e all’aggiornamento.
Come si vede, molte sono le questioni da affrontare, se si volesse sul serio affrontare l’affermazione probabilmente irreversibile del lavoro da remoto.