Nello Statuto, la cassetta degli attrezzi per fare dei nostri iscritti i protagonisti delle nostre scelte e dei delegati il cuore della direzione politica
La CGIL non è solo la più grande organizzazione politica e sindacale esistente oggi in Italia, è anche la più vivace e combattiva. E’ una grande organizzazione che rappresenta un esempio: per il numero degli iscritti, per il radicamento sul territorio nazionale, per la sua macchina organizzativa di migliaia di delegate e delegati, funzionarie e funzionari, apparati tecnici e strutture di servizio che ogni giorno svolgono con dedizione e competenza il proprio lavoro. Tutto questo in una struttura sia piramidale che orizzontale, diretta da dirigenti democraticamente eletti dalle iscritte e dagli iscritti.
Lo Statuto porta a sintesi la nostra complessità e detta le regole di base del nostro funzionamento. Tutti noi ci riconosciamo nello Statuto e nel Programma fondamentale e tutti troviamo nello Statuto le risposte a una serie di quesiti di carattere generale; al suo interno viene articolata la struttura dell’organizzazione con l’assemblea generale, che è l’organismo decisionale politico, e con le segreterie che sono delegate a realizzare le determinazioni lì assunte. In questi ultimi anni si è fatta strada la prassi (a tutti i livelli dell’organizzazione) di organizzare le riunioni dei segretari generali prima dello svolgimento delle Assemblee Generali: nelle categorie con la convocazione delle segreterie regionali o delle grandi aree metropolitane e in confederazione con i segretari generali confederali delle regioni e delle CdL metropolitane e quelli delle categorie nazionali.
Noi consideriamo questa modalità errata nella forma e nella sostanza: lo abbiamo dichiarato in ogni occasione e non ci stanchiamo di farlo.
Questa prassi è scorretta statutariamente e, a scapito della democrazia interna, indebolisce anche la capacità del gruppo dirigente largo (quello fatto dalle delegate e dai delegati) di sentirsi protagonista e artefice delle scelte della organizzazione.
La vivacità della nostra organizzazione risiede soprattutto nel patrimonio di partecipazione che i delegati e gli iscritti hanno potuto praticare: la scrittura delle piattaforme rivendicative, la valutazione degli accordi, le scelte organizzative con l’elezione delle segreterie sono alcuni dei momenti in cui la prassi democratica e di partecipazione deve trovare realizzazione piena. Fino a che manterremo queste discussioni all’interno dell’assemblea generale creeremo le condizioni per lo scambio di opinioni tra base di rappresentanza e vertice organizzativo, determinando cultura di organizzazione, rendendo trasparenti i posizionamenti politici (e le idee che li sostengono) e liberando il campo del dibattito da scelte di apparentamento che, troppo spesso, non si evolvono nei meccanismi democratici visibili delle aree programmatiche o congressuali. Se l’evoluzione dello statuto nel tempo ha definito questa forma è perché attraverso la partecipazione attiva si costruisce il sindacato fatto dagli iscritti, dai delegati e dalle strutture burocratiche professionali, indispensabili ma non autosufficienti, al buon andamento della vita sindacale e dell’organizzazione. Le energie dovrebbero scorrere liberamente e nessuno dovrebbe sentirsi escluso dalla vita della CGIL o della propria categoria. Se a questa dinamica se ne sostituisce una diversa, fatta di assemblee ristrette e ambiti di discussione chiusi questo rapporto appassisce: adesso poi che si immagina di dare vita a una assemblea delle delegate e dei delegati, ci si apre al rischio di costruire recinti separati, distinti: uno in cui si discute tra strutture politiche burocratiche e uno dove si dà l’apparenza della partecipazione attiva offrendo uno spazio, che diventa però esclusivo (nel senso negativo del termine di esclusione) alle delegate e dei delegati. Uno spazio di democrazia formale e di maniera in cui la partecipazione è solo apparente, perché costruita su spazi chiusi che non si contaminano e finiranno per chiudere le porte del dialogo e non ampliarle.
Nel corso delle ultime assemblee generali confederali si è discusso a lungo del rapporto con i giovani, dell’organizzazione delle prossime iniziative politiche avverse le scelte del governo Meloni e della fatica che si fa a coinvolgere le lavoratrici e i lavoratori in queste iniziative. La politica raggiunge gli obiettivi sulla base della cultura che guida le scelte e dell’operosità che le realizza.
Nel seminario che tenemmo come compagne e compagni di Lavoro Società della FILCAMS-CGIL, a Rimini nel 2018, emerse nella discussione la distanza tra ciò che la CGIL dichiara e ciò che spesso viene poi messo in pratica. Una richiesta di attenzione che poneva al centro la costruzione non del consenso (l’ossessione della moderna politica) ma della partecipazione: due strade diverse che creano cittadinanza attiva e progresso (la partecipazione) o la cittadinanza passiva e la regressione (il solo consenso).
Anche i risultati dell’inchiesta sul sindacato (presentata nel corso dell’ultima assemblea generale confederale) sembrano rispondere a questa logica: viene dichiarata una distanza dei cittadini dalla vita dall’organizzazione, ma al contempo una forte popolarità del Segretario Generale; una constatazione che appare ingenerosa verso chi, quotidianamente, va nelle aziende a svolgere il proprio ruolo e verso i delegati che portano la voce della CGIL nelle aziende (e la voce delle lavoratrici e lavoratori in CGIL), ma con cui dobbiamo fare i conti. Questa indagine ci dice che già oggi – anche nel nostro mondo – quello dei lavoratori – è penetrata l’idea, sbagliata, che la nostra organizzazione abbia un capo a cui affidare i nostri destini e non abbia invece una linea e una leadership – “capo” compreso – che sono il frutto della maturazione collettiva di tutta la CGIL.
Siamo ancora a tempo per correggere un errore che potrebbe essere fatale: l’organizzazione è ancora forte delle esperienze delle stagioni passate (e degli errori dei partiti di questi anni): traiamone tutti gli insegnamenti del caso per maturare il nostro futuro e le nostre prassi di domani.
Come diciamo sempre, da noi non c’è l’io, c’è il noi. Non c’è l’uomo (o la donna) solo al comando, tanto a Roma, quanto nella Camera del Lavoro più piccola, ma un collettivo di lavoratrici e lavoratori, di dirigenti in produzione e negli apparati, che discutono, scelgono e decidono come un corpo collettivo.
Come scrivemmo nella parola d’ordine del passato congresso della FILCAMS: “La CGIL è collettiva!”. E aggiungerei, o non è.